TRAMA
Nel tentativo di salvare la figlia Kate, leucemica, i coniugi Fitzgerald concepiscono un bambino in provetta, in modo che possa fornire “pezzi di ricambio” all’ammalata. Undici anni dopo, la giovane Anna si rivolge a un avvocato per ottenere l’emancipazione medica.
RECENSIONI
Cassavetes il giovane sfoglia l'album di famiglia dei Fitzgerald. Le voci si alternano, si contraddicono, scivolano lentamente verso il silenzio, unica espressione possibile del non-raccontabile, dell'osceno per eccellenza: la morte di un'adolescente. I rovelli della genetica, così come l'emancipazione medica, sono (fin troppo) semplice pretesto per (s)comporre il ritratto di una famiglia serenamente disfunzionale, i cui membri, pur uniti dall'affetto reciproco, sembrano vivere in altrettanti mondi a parte, prigionieri di sofferenze differenti, benché nate dallo stesso dolore. L'attesa della fine, l'ansia, la rabbia, lo sgomento, la rassegnazione e il desiderio di fronte a ciò che può essere rimandato, ma non scongiurato, permeano le immagini de La custode di mia sorella, tanto più efficaci quanto più rare sono le parole che a quelle immagini si sovrappongono. Se i tentativi del regista di "fare poesia" con scene ad effetto (il ritratto frantumato sui tetti del tribunale, il ballo ospedaliero di Kate e la sua ribellione a base di metal e alcolici) rimandano senza scampo alle più trite fiction televisive, è nel silenzio e nell'assoluta essenzialità visiva che il film trova i suoi momenti più intensi: si pensi ad esempio al personaggio di Jesse, il più enigmatico e taciturno del gruppo, figura notturna e solitaria ma anche lontana da ogni maledettismo di cartapesta (almeno fino all'evitabile piazzata in tribunale), agli incontri ospedalieri di Kate e Taylor (amare, come ricorda Hitchcock, significa condividere tutto, anche gli aspetti più intimi, per quanto siano o possano sembrare disgustosi), al dialogo fra Anna e il giudice, tutto giocato sul volto di una Joan Cusack così intensa da risultare seriamente imbarazzante per tutti i suoi colleghi. Cameron Diaz, troppo giovane per la parte (davvero ingrata) di Sara, è tesa e sopra le righe, creando un bel contrasto con la recitazione dimessa di Jason Patric: fatale, comunque, che i due siano eclissati dalla "prole", Abigail Breslin (Anna) su tutti. Registriamo con piacere la naturalezza con la quale Alec Baldwin si cala nei panni dell'avvocato cinico e insospettabilmente onesto: peccato solo per l'ultima scena, un po' troppo zuccherosa per un film così giustamente ruvido.