Horror, Recensione

LA CITTÀ VERRÀ DISTRUTTA ALL’ALBA (2010)

Titolo OriginaleThe crazies
NazioneUsa, Emirati Arabi Uniti
Anno Produzione2010
Genere
Durata101'
Tratto dadal film
Montaggio
Musiche

TRAMA

Gli abitanti di Ogden Marsh manifestano strani comportamenti…

RECENSIONI

Il remake di Eisner placa l’apologia satirica del modello romeriano. Cambia il contesto e di conseguenza anche il clima emotivo. Non più grottesche convulsioni burocratiche, istituzioni regredite e in preda a disordini organizzativi, truppe speciali carnevalesche. La città verrà distrutta all’alba non prende in analisi la totalità della piramide sociale, preferendo concentrare lo sguardo sulla quarantena dei cittadini di Ogden Marsh. E’ il privato a opporre il proprio istinto di sopravvivenza contro l’incomprensibile apocalisse del sistema, a sfidare con indipendenza giurisdizionale (lo sceriffo David Dutton) l’imperialistica svolta autoritaria. Se Romero sconquassava il tessuto filmico con un montaggio baldanzoso e scoordinato, proiettando su di esso lo stato d’animo di un’epoca e di un fermento generazionale, di una ribellione tanto disperata quanto impregnata di anaffettività e disillusione, Eisner opta per un’atmosfera diversa, immergendosi nella Sci-Fi ed estetizzando con qualche deriva splatter (gli infetti non muoiono, ma si trasformano in zombies). Meno rivoluzionario, rimane coerente con i codici del genere, predilige la regia finalizzata alla suspense, a un senso dell’immagine immanente e in sospensione allucinatoria. Ad emergere è un’inquietudine molto marcata, decisamente più conflittuale rispetto al film precedente, dove fin da subito veniva diagnosticata un’impotenza generale, una ludica e farsesca irrimediabilità pessimistica. Tutto era già segnato, le falle e l’incompetenza del sistema, la sua crisi patologica, non promettevano altro che un vicolo cieco. Qui la situazione si mantiene viva, David e Judy si oppongono con veemenza all’invasione (aliena) dei marines, cercano di scardinare il confinamento in cui sono intrappolati, fuggono carpenterianamente dalla città senza rimanere intrappolati romerianamente come i loro antecedenti (il nascondiglio di mattoni per proteggere Judy). La politica del terrore in tutte le sue evidenti allusioni contemporanee è combattuta e vinta. Non serve la soluzione finale dall’alto per porre fine (metaforicamente) al mondo, perché in questo caso ci pensa la ribellione dell’individuo. E’ lo Stato a programmare i propri terroristi.

Alla Platinum Dunes di Michael Bay, specializzata in remake di cult horror anni settanta, deve essere “sfuggito” questo rifacimento dell’omonima pellicola di George A. Romero che, ingaggiato come produttore esecutivo, dà il suo beneplacito alla sceneggiatura di Ray Wright e Scott Kosar (quest’ultimo, oltretutto, aveva scritto per la Platinum Dunes un riuscito Amityville Horror), differente dalla sua, principalmente, in un elemento cardine: non dà volto ai militari (Romero, invece, si destreggiava sui due “fronti”). Gli sceneggiatori inventano anche situazioni orrorifiche differenti e, al posto di un pompiere con moglie incinta, preferiscono uno sceriffo. Tutto più spettacolare, votato all’intrattenimento e convenzionale, basti dire che l’originale costò nel 1973 solo 250.000 dollari e non li recuperò al botteghino: Breck Eisner “deve” mostrare i soldi spesi e non si sogna di replicare i modi di ripresa (pseudo) amatoriali - documentaristici di Romero, mentre il ritratto dei personaggi rientra nei ranghi (il buon sceriffo di Timothy Olyphant è quasi inverosimile nell’ottimismo e nella fiducia che ripone nel prossimo), dove in Romero non c’erano veri eroi. Mancano anche, e non è certo cosa da poco, i riferimenti politici: là si parlava indirettamente di Vietnam, qui di...niente. Eisner è comunque un eccellente artigiano di prodotti mainstream (ricordiamo con piacere il suo Sahara) e porta a compimento il prodotto in modo onorevole, con tensione, sorprese e quel pizzico di cattiveria che non guasta: a reggere poco sono certe dinamiche incredibili del racconto, emblematicamente quelle (poche) scene dove la sceneggiatura pennella i “volti” dei protagonisti, che il regista risolve troppo sbrigativamente (la scena in cui lo sceriffo, fidandosi, rilascia il militare prigioniero; quella in cui madre e figlio infetti legano la moglie dello sceriffo ad una sedia anziché eliminarla, e così via).