TRAMA
In una sperduta villa delle Ande nel nord-ovest dell’Argentina, una ricca famiglia trascorre stancamente le proprie vacanze: Mecha, il marito e i suoi 4 figli si trascinano tra letto, vino e piscina, raggiunti saltuariamente dalla famiglia di Tali, cugina di Mecha.
RECENSIONI
Una stretta vallata paludosa circondata da imponenti foreste pluviali, sotto un'afa opprimente ed un'aria immobile squassata da tuoni minacciosi, è teatro del processo di annichilimento dell'alta borghesia argentina, figlia dei colonizzatori spagnoli, impersonata da un agglomerato composto da due famiglie. Uno sfaldamento fisico, uno "scioglimento" neurolettico progressivo e inarrestabile fino all'abulia totale, precipitato da un clima dall'effetto anestetizzante. I componenti di questo nucleo mantengono solo apparentemente il loro atavico e immutabile stile di vita ma in realtà perdono sempre più il controllo degli status symbol di cui si sono circondati: piscina, vino, telefoni, automobili, indios al loro servizio, cominciano a prendere il sopravvento su di loro. Gli indios, che sotto una maschera di indifferenza covano giustificato rancore dopo 500 anni di sottomissione, alzano la testa e prendono coraggio, come i cani attorno ad una vacca che sprofonda immobilizzata da un pantano_ la "cienaga" del titolo _ in una delle sequenze fondamentali del film. La "cienaga" come "paralisi", il "fango" come "cancro", questa è la suggestiva metafora che fa da filo conduttore a questo sorprendente film d'esordio; anzi ciò che ricorre sistematicamente è uno scontro allegorico fra "acqua pura" e "acqua sporca", l'una vitale e salvifica, l'altra corruttrice. La melma, l'acqua stagnante della piscina, il vino, il sangue, il sudore, assumono tutti una valenza simbolica di contaminazione e decadimento dalle quali nessuno è più in grado di liberarsi: quando José sporco di fango entra nella doccia dove si sta lavando la sorella Verò, una zoomata ci mostra i piedi di lei che si risciacquano nella melma che non vuol proprio saperne di scomparire nello scolo. E nessun asciugamano, oggetto che contiene in sé un rassicurante attributo di pulizia e a cui ricorrono ossessivamente i membri della famiglia nel tentativo di asciugare il sudore, frenare un'emorragia, togliere il fango, può restituire la pulizia perduta; anzi non fa altro che peggiorare le cose estendendo lo sporco su una superficie più grande. Fa bene la domestica "india" a rubare gli asciugamani dei padroni: a loro non servono più. Li porterà con sé abbandonando la casa come una nave che affonda: i "vecchi" andranno a seppellirsi come Oblomov in camera da letto o a vagare come fantasmi ubriachi tra una stanza e l'altra. I figli, parto di genitori incancreniti, svilupperanno malsane inclinazioni affettive, manifesteranno strani difetti fisici, moriranno in erba vittime di paure insondabili e di genitori distratti da illusori quanto inutili viaggi in Bolivia. Ma l'aspetto più pessimista è l'amara constatazione che, al di fuori della classe borghese in disfacimento, nessuno sembra in grado di guidare un paese allo sbando: non gli indios, che sembrano più orientati a ritirarsi nel loro isolamento; non gli strati più poveri della popolazione che paiono ammuffire nello stato di superstizione e di ignoranza nel quale la classe dominante li ha confinati. Si "muove" magistralmente e prevalentemente per inquadrature fisse Lucrecia Martel, trentacinquenne al suo primo lungometraggio, dentro spazi angusti e claustrofobici, tra corpi attorcigliati o ritti nella loro immobilità; con una fluidità da veterana nel parsimonioso utilizzo del carrello negli interni e nelle soggettive a mano tra gli intricati arbusti dei boschi, e nei raccordi tra le innumerevoli situazioni narrative spesso collocate in una stessa unità di luogo, riuscendo nel non facile tentativo di rendere scorrevole e dinamica la rappresentazione di un numero così alto di personaggi in uno spazio di dimensioni così limitate; il tutto attraverso una cifra figurativa iperrealista, calda e "pregna" che pone la Martel cinematograficamente più vicina al messicano Ripstein che ai suoi illustri connazionali, dai quali eredita comunque il consistente seppur sotterraneo segno politico.