Drammatico

LA CASA DI SABBIA E NEBBIA

Titolo OriginaleHouse of Sand and Fog
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2003
Durata126'
Tratto dadal romanzo di Andre Dubus III
Scenografia

TRAMA

Massoud Amir Behrani è un immigrato iraniano che si è trasferito negli Stati Uniti con moglie e figli. Lavora duro e, una volta sistemata la figlia con un buon matrimonio, investe i suoi risparmi nell’acquisto di una casa ad un’asta giudiziaria. L’operazione avrà tragici risvolti a causa di una contesa legale con il precedente proprietario, la giovane Kathy.

RECENSIONI

Uno degli stratagemmi per incollare il pubblico allo schermo è creare una sceneggiatura fondata su un forte contrasto e popolata da personaggi memorabili. Di persone che semplicemente vivono cavalcando il quotidiano, in fondo non sappiamo che farcene. È già quello che facciamo ogni giorno! Meglio quindi, molto meglio, incontrare protagonisti, possibilmente in antitesi, che si trovano, è preferibile all'improvviso, davanti a un ostacolo insormontabile. Partire dall'ordinario per arrivare allo straordinario. A questo aspetto (ovviamente opinabile, ma di pressoché sicuro effetto) l'esordio nel lungometraggio dell'ucraino Vadim Perelman è molto attento. Sono completamente opposti, infatti, i due ruoli principali. Lui è un ex-colonnello iraniano che ha vissuto da nababbo all'epoca dello Scià e ha dovuto ricominciare da zero dopo che il regime degli Ayatollah lo ha costretto all'esilio. Lei è una ragazza un po' allo sbando, con alle spalle un marito e una dipendenza alcolica. In comune non hanno nulla, ma la casa di lei li farà incontrare. Basta infatti una tassa non pagata per sfrattare lei e imporre lui come legittimo proprietario. A questo punto il conflitto è inevitabile. L'imparzialità della narrazione è l'aspetto migliore della pellicola. Entrambi i protagonisti hanno infatti validissime ragioni per non rinunciare a quello che ritengono un loro sacrosanto diritto e la sceneggiatura assume uno sguardo lucido che sviscera le personalità di ognuno senza glissare sulle naturali contraddizioni. L'interessante dissidio tra legge e morale, diventa però, nelle mani di Perelman, un facile drammone. Davvero un peccato, perchè l'ennesimo crollo del sogno americano sfuma le possibili implicazioni in una sottotrama amorosa a credibilità zero, invadente come la colonna sonora di James Horner. È quindi il melò a prendere il sopravvento, con una regia concentrata sull'intimità dello scontro, attenta a non perdersi in fronzoli, ma alla ricerca della lacrima a tutti i costi. La tragedia finale arriva inevitabile, ma ha il sapore posticcio dell'escamotage per risolvere la situazione e mandare in qualche modo gli spettatori a casa e, nonostante il dettaglio dello strazio, gli esiti sono grotteschi. Non aiutano nemmeno gli interpreti. Ben Kingsley è fin troppo bravo, ma il suo colonnello, dal carattere forte e dalla volontà di ferro, rischia di apparire un po' di maniera. Molto meglio sua moglie, la dolce e comunicativa Shohreh Aghdashloo. Jennifer Connelly è bella e sa piangere bene, ma questo non fa di lei una brava attrice. Nonostante le tante scene madri, la sua recitazione è infatti priva di dinamica e bloccata da una sorta di immobilità espressiva. Pessimo e basta, invece, Ron Eldard, ma la responsabilità è anche di un personaggio narrativamente irrisolto. Di dubbio gusto la cacofonia del titolo italiano ("House of sand and fog" aveva una differente musicalità), ma in qualche modo adatto alla ridondante grevità degli sviluppi.

Il best seller di Andre Dubus III è adattato per il grande schermo da un esordiente regista pubblicitario di origine russa, convinto che basti indugiare sul panorama, sullo sguardo fisso nel vuoto degli interpreti e sulle note di James Horner per donare complessità al testo. Prima parte: incuriositi dalla doppia vita dell’iraniano, irritati da una donna delle pulizie bella come la Connelly (era più credibile la Kidman ne La Macchia Umana: questione di premesse), addormentati da una guerra fra poveri che stenta ad affondare i colpi per non sporcarsi mani e testa nei conflitti, nei dilemmi e nelle contraddizioni che racconta. L’unico sussulto è dato dall’incidente con i chiodi: un pizzicotto alla sonnolenza dello spettatore, sprofondato nell’inutile lentezza di una regia che non conosce sfumature e non sente mai la necessità di un punto di vista (umano quanto cinematografico). Del fascino originario del romanzo ci si accorge solo nella seconda parte: lentamente, la trama dipana le proprie tematiche. La serie di ingiustizie, a catena, culmina in uno scioccante e triste epilogo che pare indipendente dal retto agire o meno dei personaggi. Tema affascinante che esigeva ben altra sensibilità d’approccio: piatta come un paesaggio di sabbia bagnata offuscata dalla nebbia, la casa di Perelman è piena di cantieri edili che soffrono di solitudine. Le fondamenta (del romanzo) lamentano riflessioni disabitate, messe all’asta, standardizzate come la scena d’amore fra la Connelly e il vicesceriffo, altro personaggio abbandonato a se stesso. Il crescendo di follia e disperazione della parte finale fa effetto: Dio non accetta il commovente fioretto di Kinglsey in ospedale (viene in mente The Confession di David Jones), vuole un sacrificio, punisce l’abuso di potere della Legge, riunisce i vivi e i morti contendenti sullo stesso letto e disaffeziona l’uccello ferito al suo nido. Inutile chiedersi perché con questa nebbia accecante o cercare degli spunti di riflessione in mezzo alla sabbia.