Biografico, Recensione

KINSEY

Titolo OriginaleKinsey
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2004
Durata118'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Alfred Kinsey, professore di biologia, decide di studiare la sessualità di un animale particolarmente interessante: l’uomo.

RECENSIONI

Il sesso, questo sconosciuto: tutti ne sono coinvolti e nessuno ne parla (al massimo si sussurra con compiaciuto imbarazzo); c’è chi si arroga il diritto di giudicare, ma nessuno può sostenere di sapere. Kinsey è il primo ad applicare al sesso i principi dell’indagine scientifica, allo scopo d’individuare, con il sostegno della statistica, quella normalità di cui farneticano i predicatori (e che ovviamente non esiste, almeno in senso normativo, dato che “tutto è diversità”). Ma la scienza non fornisce tutte le risposte, se la biologia è inscindibile dai sentimenti (pur trattandosi di territori nettamente diversi: l’amore penetra nel profondo, il sesso è questione di pochi centimetri, per dirla con il Woody Allen di PALLOTTOLE SU BROADWAY) e le cavie, punte nel vivo dell’orgoglio & pregiudizio di matrice confessionale e politica, si ribellano agli scopi e ai metodi dello scienziato, bollati come sovversivi nell’America del maccartismo. E anche oggi non è facile affrontare questi temi: KINSEY è stato accolto negli Stati Uniti da furori preventivi e frettolosi linciaggi, e solo per questo verrebbe voglia di sostenere il film di Bill Condon (DEMONI E DEI), che ha l’indubbio merito di (ri)portare alla ribalta le figura dello scandaloso biologo in un periodo segnato da ipocrite restaurazioni a tutto campo (nessun bisogno di nomi: sarebbero troppi). Purtroppo, le migliori intenzioni del mondo non bastano a fare un film degno di nota. Condon pone in secondo piano l’attività di Kinsey (accontentandosi di evocarla attraverso fulminei frammenti d’interviste: il film stesso è strutturato come un colloquio “di prova” fra il Professore e i suoi collaboratori – idea promettente, che l’opera si guarda bene dallo sviluppare, limitandosi a opporre i colori del quadro al b/n della cornice -) e si concentra sull’uomo, ricco di ardore scientifico quanto di lati poco edificanti, e sul suo entourage, in cui spiccano le figure della moglie Clara e di Clyde, allievo prediletto e amante sporadico di entrambi i signori Kinsey. Il problema non è l’aneddotica più o meno piccante di cui è infarcito il film, ma il fatto che il medesimo finisca per assomigliare a uno sceneggiato televisivo: sapientemente levigato, convenientemente freudiano (le incomprensioni generazionali sono alla base di tutte le frustrazioni, sessuali e non), paradossalmente puritano (la macchina da presa occulta quello che dovrebbe essere il centro di tutta l’opera, il sesso: l’attrazione dei Kinsey per Clyde è risolta con un vorace e fulmineo bacio per lui e un assaggio di petting in déshabillé per lei; le proiezioni dei documentari girati dall’équipe del Professore sono il trionfo del fuori campo, come la terapia che risolve il problema dei novelli sposi Alfred e Clara), piattamente agiografico. La sezione conclusiva, dalla predica al pedofilo al colloquio con la lesbica salvata dalla disperazione (una peraltro ottima Lynn Redgrave), è emblematica dell’assoluzione incondizionata che il film riserva al suo protagonista, presentato come un paladino della Natura (il finale silvestre) che si oppone alle autentiche perversioni, le censure e le flagellazioni promosse dagli uomini. Privo di sfaccettature sia sotto il profilo dei contenuti sia dal punto di vista formale, KINSEY ha qualche momento brillante nelle scene dedicate alle lezioni di sesso (cui si collega il divertissement inserito nei titoli di coda) e il suo punto di forza nell’interpretazione dimessa e infinitamente malinconica di Laura Linney (al fianco di un Neeson che, più che estenuato, sembra annoiato), ma nel complesso rende allo studioso un omaggio fiacco, di glaciale superficialità. Un documentario sarebbe stato una scelta preferibile.

Probabilmente, nessuna branca del sapere è stata più della zoologia libera da incrostazioni teologiche, metafisiche, moraleggianti, dalle quali per converso furono pesantemente condizionate la matematica con le sue smanie platonizzanti, la fisica con i suoi rigurgiti mistici o panteisti, la chimica coi suoi deliri stregoneschi, e tanto più la medicina col suo impietoso riduzionismo organicista (vera attuazione del progetto cartesiano della res extensa) e sempre a un ambiguo confine – per la propria intima necessità assiologica – dalle più bieche pratiche di controllo sociale; per non parlare delle scienze umane, affette ora più ora meno da tentazioni finalistiche o essenzialistiche, quando non scopertamente ideologiche. Dunque, non è strano che sia stato uno zoologo – cioè un descrittivista, nel senso più alto del termine – a squarciare il velo delle false credenze su una questione così gravida di implicazioni e sottintesi, ignoranza e pretese, quale il comportamento sessuale umano. Ad abbattere, in particolare, la dicotomia etica normalità/patologia, per sostituirla con il binomio statistico e moralmente neutro della frequenza/rarità (il conflitto fra l’osservatore Kinsey e il moralista medico suo collega viene tra l’altro argutamente tratteggiato nel film). L’elogio della differenza, intesa come varietà del vivente e dei suoi comportamenti, potrebbe perfino essere inteso come l’autentico tema di Kinsey (“l’unico aspetto imprescindibile della vita è la diversità”, dice il protagonista) al di sotto della buccia biopic, peraltro sufficientemente colorita e gustosa. Il dilemma irrisolto del film sta qui: in una concertazione perplessa fra le lusinghe del romanzo biografico condotto con diligente, efficace ed esteriore senso dello spettacolo, e le impervie altezze dell’affresco epocale (alle quali perfino uno Scorsese si è rivelato non pienamente adeguato) o morale (di fronte a cui anche Von Trier e Eastwood hanno lasciato qualche scoria sul terreno).
Privo di uno stile capace di animare gli ultimi due, Condon si rifugia nel primo più spesso e massicciamente di quanto vorremmo, come già era accaduto in Dèmoni e dèi. Anche tenendo conto di questo, al regista sembra sfuggire completamente l’importanza e la complessità del tema sotteso alla vicenda al di là della cangiante, curiosa, piccante superficie delle variegate pratiche sessuali a disposizione dell’animale homo: il tema della costruzione culturale della sessualità, che anche grazie alle acquisizioni regalateci da Kinsey ha potuto affermarsi come uno dei grandi momenti della riflessione critica del Novecento fino a toccare l’altra questione, strettamente connessavi, della costruzione culturale dei generi sessuali; da Betty Friedan a Michel Foucault, da Philippe Ariès a Evelyn Fox Keller, da Françoise Héritier a Judith Butler. Nel film, invece, troppo spazio è dedicato ai fenomeni di superficie, riguardanti in particolare le abitudini del protagonista e della sua tenace consorte. Anche perciò taluni sporadici inserti visivi, documentari o narrativi, che proprio i fenomeni del sesso intendono mostrare, risultano superflui o eccedenti, comunque gratuiti, sebbene incontrino il divertito favore del pubblico. Per fortuna, la miscela è disorganica e non nobilissima ma neppure indigesta. Qualche concessione psicanalitica di troppo, che rischia di offuscare la percezione dell’oggettività scientifica del Rapporto Kinsey, è riscattata dalla descrizione sardonica della stupidità umana che si nasconde dietro le proprie paure e le minacce della propaganda politica: il maccartismo è infatti rapidamente visualizzato come un gigantesco fenomeno di psicosi collettiva, nel quale un’intera società volle schiacciare dentro di sé – dopo gli anni del New Deal e dopo le rivelazioni di Kinsey – tutto quanto non corrispondeva al proprio puritanesimo e al proprio ultracapitalismo. Un film onestamente didascalico, in definitiva; e se in esso John Lithgow è debitamente sovraccarico, Liam Neeson appare sottotono. Ma Laura Linney è sempre più brava e versatile, e la gloriosa Lynn Redgrave offre un momento di autentica commozione, mentre nei panni agri della madre di Kinsey ritroviamo addirittura Veronica Cartwright, già ragazzina terribile in un altro film sull’ipocrita e micidiale perbenismo di una società integra come un sepolcro imbiancato – Quelle due, di William Wyler – nonché disgraziata protagonista di Alien. In tempi come questi, in cui assistiamo al rinnovato trionfo di predicatori di purezza e profeti di una concezione rigidamente normativa della sessualità, di missionari armati e politici senza scrupoli che brandiscono il povero corpo dei sudditi nella propria guerra ideologica, pregando in nome della vita e somministrando nel frattempo la morte, anche una modesta didattica è ben accetta quando sa reggere la sfida dell’intrattenimento, e quando mostra la fermezza di un uomo che fu sì eroe suo malgrado, ma perché ebbe la forza di non rinunciare alla verità fattuale che aveva riconosciuto e di non abbassare la testa ai potenti, mentre altri rinnegavano ciò in cui avevano detto di credere “per difendere le proprie ville e piscine” (Welles). Né possiamo spregiarla, quella didattica, con facile smorfia di superiorità; se n’è infatti giovato un pubblico che, a giudicare dalle stupite osservazioni e conversazioni carpite all’uscita dalla sala cinematografica, innanzitutto di essa aveva bisogno. Tant’è: non solo il progresso appare sempre più grande di quanto realmente sia, ma esso, tanto nel campo della conoscenza quanto in quello della consapevolezza, non è mai una conquista per sempre.