
TRAMA
John Rambo vive in Thailnadia e si guadagna da vivere catturando serpenti a mani nude e pescando con l’inseparabile arco. Un gruppo di missionari armati di bibbie e medicinali lo convince a “scortarli” nella confinante Birmania, martoriata da una guerra civile pluridecennale…
RECENSIONI
Stallone completa il suo ritorno alle origini, con questo agiografico uno-due (Rocky Balboa, 2006; John Rambo , 2007) disperato, da ultima spiaggia. La questione, fatta di baratri, oblio e impossibili vie di fuga, è talmente chiara da renderne inutile qualunque trattazione, anche la più sintetica. Così come adamantino mi pare lo sconfinamento/slittamento arte/vita, con annesse considerazioni sul 'corpo' in disfacimento di Sly che, è il caso di dire, incarna a più livelli il senso stesso dell'operazione e la polisemantizza su una gamma ermeneutica non amplissima, che va grossomodo dall''eroico' al 'patetico' passando per due-tre modulazioni. Si potrebbe perfino buttarla in politica, tracciando paralleli tra il contesto originario reaganiano, l'amministrazione Bush e il passato-presente-futuro(?) John McCain, ma insomma abbiamo una dignità (-benché il candidato McCain eroe del Vietnam, appoggiato da Stallone nella corsa alla presidenza, chiuderebbe diversi cerchi-). Preferiamo, dunque, parlare del film , che ripropone immutata la struttura tripartita del secondo e terzo capitolo della serie, ossia: 1) si mostra il Nostro che ha appeso il mitra al chiodo; 2) si propone al Nostro di tornare in attività, ma il Nostro recalcitra; 3) il Nostro si lascia convincere e ne trucida ventisettemila, a fin di bene. L'aggiornamento parziale della formula risiede tutto nella confezione, non tanto perché siano passati vent'anni da Rambo III , quattro lustri che sulla confezione pesano, quanto perché Stallone sembra aver avuto un'idea registica che ha cercato pure, almeno inizialmente, di 'applicare'; John Rambo si apre con un breve montaggio di immagini di repertorio, mediamente crude, che insieme a un'insulsa frasetta post-titoli di testa dovrebbero non solo nobilitare/giustificare la violenza cinematografica a seguire, ma anche settare uno standard tecnico/stilistico. La sequenza successiva è infatti linkata al documentarismo iniziale da un contenuto 'forte' e da uno stile verité fatto di grana grossa, macchina a mano e carrellate ottiche. Sly sembra volerci dire che il quarto Rambo sarà insomma (il) più 'realistico'. Ammesso e non concesso che la cosa sia vera, non deve comunque sfuggirci che: A) la constatazione in sé è sostanzialmente priva di significato; B) la regia di Stallone si appiattisce progressivamente su standardizzati standard di tipo standard, con buona pace del prologo e post-prologo; C) ogni pretesa di 'realismo' è comunque vanificata dalla solita sceneggiatura stalloniana, che in quanto a sfaccettature, complessità e (dunque) verismo , non riesce a differenziarsi in modo apprezzabile da un qualunque episodio di Walker Texas Ranger ; D) l'impennata di violenza finale, con Rambo tarantolato che smitraglia per dieci minuti di fila su cattivi che esplodono come gavettoni, è anche divertente ma non è roba seria, meno che mai realistica. Detto ciò, l'inerziale efficacia del rambismo sporadicamente affiora (il primo ritorno all'azione di Rambo barcaiolo, la sequenza dell'arco) e anche stavolta, chi ha voglia di perdersi in quisquilie del tipo 'ma qual è il messaggio del film?' avrà pane per i suoi denti: guerrafondaismo reazionario o cosmica disillusione anarcoide? Dormite sogni tranquilli ché neanche l'Autore (Stallone, dico) sembra avere le idee chiare. E ora vogliamo Marion Cobretti.

Dopo la tappa finale (?) di Rocky Balboa, Sylvester Stallone dona l’epilogo anche all’altra sua creatura “mitica”, cambiando completamente registro: non l’umanesimo patetico del pugile, ma l’azione pura, dove il “sentimento” è relegato in atti emblematici (al pacifista ipocrita, Rambo ribadisce che la realtà non deve modificarsi in assenza di armi). Si reinventa nell’impegno politico/civile, inserendo veri documenti con cui denunciare gli eccidi in Birmania e raffigurando le vessazioni dei militari nei confronti dei contadini (crudelissimo il gioco delle bombe). La violenza efferata mostrata, però, è meramente spettacolare, iperbolica e con cattivi senz’anima (l’uccisione dei bambini, lo stupro delle bambine) mentre il protagonista è un disilluso non ingenuo, sensibile al fascino femminile e in fondo idealista: tutto propedeutico a montare la rabbia dello spettatore, in puro Rambo style (Ted Kotcheff, regista del primo capitolo, è consulente tecnico), preservando le iperboli di violenza brutale che sono un marco di fabbrica. Il passato riproposto da spezzoni in bianco e nero serve il tema della creatura bellica di Frankenstein, da non confondere con i venali mercenari o i destrorsi guerrafondai: John Rambo è solo una macchina da guerra. Plot elementare, morale ferma, vita o morte: la strage finale, epidermicamente presa, è da sballo, con il capo dei missionari che si converte al rambismo mentre il suo mentore lavora di mitragliatrice, corpo a corpo, bombe, sassi, lanciafiamme e scruta nello sguardo la morte del nemico. Riconciliato con se stesso, può tornare a casa in pace. Nel 2009 è uscito un “director’s cut” di 132’.
