TRAMA
In un piccolo villaggio del Texas, Joe Ransom cerca di lasciarsi alle spalle un passato oscuro. L’opportunità gli viene data dall’arrivo in paese di Gary, ragazzino in difficoltà, in cerca di lavoro.
RECENSIONI
Sembra esserci la convinzione, soprattutto in certo cinema americano ma non solo, che per non essere commerciale, quindi presumibilmente in cerca di un affermazione come “autore”, devi occuparti di personaggi sgradevoli che fanno cose sgradevoli. Come se l’alternativa al laccato fosse esclusivamente il ruvido, anzi, ruvidissimo. Se non sei mainstream devi quindi mostrare il peggio. Sull’onda di questa convinzione, che pare motivare molti cineasti in fuga dal blockbuster, David Gordon Green, regista capace di passare dalle commedie Strafumati e Lo spaventapassere a film premiati nei festival come il recente Prince Avalanche vincitore per la Migliore Regia alla Berlinale 2013, adatta un romanzo di Larry Brown ambientato nel profondo Sud degli Stati Uniti.
Il cinema ha il potere di ingigantire e rendere interessante qualunque conflitto, su un archetipo come il rapporto padre/figlio si basa la metà della produzione cinematografica mondiale. Eppure di questi personaggi immersi in un nulla di opportunità e speranza non ce ne importa granché. Certo, si parteggia fin da subito per questo ragazzino sveglio, non si capisce come mai miracolosamente immune al malessere dei suoi familiari (padre violento e alcolizzato, madre assente e devastata, sorella resa muta da una violenza subita), e si percepisce fin da subito che con il burbero Joe sarà intesa a prima vista (il figlio che non ha mai avuto un padre incontra il padre che non ha mai avuto un figlio). Il problema è che la visione di Gordon Green vive di estremizzazioni piuttosto stereotipate. Una provincia americana così carica e devastata, in cui i personaggi non stonerebbero come zombi nel serial tv “The Walking Dead” e l’alcool sembra essere l’unico rifugio possibile, viene infatti esibita nella sua massima degradazione con un compiacimento discutibile. Si finisce per perdere il polso di casi umani alla fine tutti piuttosto sovrapponibili nell’insensatezza del loro agire, tanto che il calore dell’incontro tra Joe e il ragazzo diventa un approdo fin troppo facile e scontato. Scene madri, urla, sensibilità primordiali, crudeltà gratuite, assenza di consapevolezza, grevità a profusione, si susseguono con monotonia.
I dialoghi pronunciati da personaggi che non sbiascicano o barcollano si contano sulle dita di una mano. Il cattivo più cattivo degli altri pare uscire da un libro di caricature. Tutto ciò finisce per essere percepito come una fastidiosa forzatura e contribuisce a creare un distacco nei confronti del sentire dolente e/o disturbato dei personaggi. Per fortuna che Nicolas Cage e il giovane Tye Sheridan (già visto in The Tree of Life e giustamente gratificato, al Festival di Venezia, con il Premio Mastroianni dedicato ai divi del futuro) offrono un'interpretazione sfumata e sentita, ma ciò non basta a rendere digeribile, soprattutto necessario, l'ennesimo ritratto di provincia disperata e disperante.
David Gordon Green è autore schizofrenico, difficile da incasellare nei suoi passaggi dal naturalismo al demenziale. In questo caso lavora su commissione: una sceneggiatura di Gary Hawkins che adatta un romanzo (1991) di Larry Brown, scrittore “sudista” spesso accostato a Cormac McCarthy, su cui Hawkins aveva girato il documentario nel 2002 The Rough South of Larry Brown. Ma non è, nella messinscena, un tipico lavoro su commissione: Green torna dalle parti di George Washington nella matrice realistica di una realtà povera tanto disadattata quanto ricca di eccentricità, ma l’opera citata era sottotono e faceva della sottrazione la sua cifra stilistica; questo Joe, al contrario, accumula troppa carne al fuoco, figure bizzarre e situazioni parossistiche per essere credibile fino in fondo. È la sobrietà a mancare: avendo a che fare con un racconto dove ogni estremismo è rappresentato (violenza, stupri, omicidi, tipi grotteschi e schizzati), Green avrebbe dovuto rinunciare all’amato mix di registri e modi di ripresa, perché con il suo gioco in equilibrio fra verosimiglianza e grottesco rinviene il bizzarro anche nella scena più quotidiana - tranquilla, facendo ribollire e debordare una pentola già colma di ingredienti “forti”. Poi adotta lo stilema dell’improvvisazione, alla ricerca di attori non professionisti (il caso più eclatante ma riuscito, quello del padre di Gary, un vero homeless morto poco dopo le riprese), oppure inventa una serie di incontri di Nicolas Cage con figure pittoresche che non hanno lo spazio necessario per distendere la drammaturgia o diventare emblematiche del sapore del Sud, essere “possibili” e non sembrare solo una collezione di figurine eccentriche. Nonostante tutto, l’approccio è molto originale, con tocchi di classe notevoli (esempio: prima e ultima scena si specchiano nella posizione degli attori in dialogo e, allegoricamente, il disboscamento iniziale lascia il posto alla semina alla fine) e funziona la figura di Joe, brava persona che non sa trattenersi di fronte ai torti. La parte finale, potente, è più “standard” nella ricerca di emozioni forti ma bilancia anche lo strambo movimento sussultorio che la precede, con successione alternata di intenso realismo con tasso tragico ed eccentricità fuori luogo.