Drammatico, Recensione

JIMMY’S HALL

Titolo OriginaleJimmy's Hall
NazioneGran Bretagna/ Irlanda/ Francia
Anno Produzione2014
Durata109'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

1932. Dopo dieci anni di esilio negli Stati Uniti, Jimmy Gralton torna in Irlanda, a Leitrim dove è nato, per aiutare la madre anziana e occuparsi della fattoria di famiglia. Sollecitato dai giovani della contea decide di riaprire il Pearse-Connolly Hall, un locale aperto a tutti per ballare, studiare e discutere. Le idee progressiste di Gralton, però, non incontreranno favore unanime.

RECENSIONI

Voce della working class, indagatore delle questioni sociali, cantore delle miserie del quotidiano, attraverso un approccio ruvido ma capace di tenerezze e slanci poetici, Ken Loach trova nella figura di Jimmy Gralton, irlandese progressista realmente esistito, fondatore di un centro sociale ante litteram, un personaggio ideale per la sua sensibilità. Non un biopic quello imbastito da Loach insieme al fedele sceneggiatore Paul Laverty, ma un racconto quasi corale che si sofferma su un momento cruciale della vita di Gralton, quello del ritorno in patria nel 1932 dopo dieci anni di esilio “volontario” negli Stati Uniti a causa delle sue idee troppo rivoluzionarie. Un ritorno, in un’Irlanda provata dalle fratture causate dalla Guerra Civile, non particolarmente gradito da nuovo governo repubblicano, Chiesa e proprietari terrieri, che temono che il carisma dell’uomo e i suoi pensieri “comunisti” possano intaccare il loro potere. La guerra di Gralton si combatterà alla Pearse-Connolly Hall, la sala che decide di riallestire e per cui era stato in precedenza allontanato. Un punto di ritrovo per chiunque voglia esercitarsi nelle arti, imparare mestieri, promuovere eventi e, soprattutto, parlare e confrontarsi. Consapevolezza e cultura, quindi, come armi per combattere ogni sopruso.

Come sempre più spesso accade con i film di Loach, le intenzioni sono lodevoli, ma il risultato soccombe al messaggio da trasmettere e alla rabbia di cui si fa veicolo. Manca infatti quella solidità drammaturgica che permette ai contrasti di farsi vivi e realmente problematici. Loach opta così per un presepe piuttosto stereotipato dove i rivoluzionari sono tutti bravi, bellini, volenterosi, ordinati, motivati, ragionevoli, coscienziosi, mentre gli antagonisti hanno facce antipatiche, digrignano i denti, frustano le figlie, sono ottusi, pieni di preconcetti e incapaci di ascoltare. Insomma, un manipolo di cattivoni contro un gruppo eroico di buoni, idealisti e senza macchia. Una visione a senso unico che rende l’incedere piuttosto prevedibile e forzato. Sulla stessa linea, poi, le lezioni impartite in alcune sequenze di dialogo, dove i personaggi, più che vivere le loro idee, si premurano di spiegarle. La stessa figura di Gralton, nonostante la buona prova di Barry Ward, non lascia un segno particolare. La sua umanità trapela, ma il suo carisma arriva a tratti. Anche la passione trattenuta con l’amica di gioventù, ora sposata e con figli, pare soprattutto un’esigenza narrativa per dare equilibrio al racconto. Poi, l’insieme ha la consueta professionalità maturata da Loach in anni di esperienza tra documentario, cinema e televisione, ma il film, pur dicendo cose importanti che è sicuramente utile rimarcare, ha la leggerezza di un comizio. Come sempre accade quando sono le certezze imposte e non i dubbi suggeriti ad avere il sopravvento.