Biografico, Musicale, Sala

JERSEY BOYS

Titolo OriginaleJersey Boys
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2014
Durata134'
Fotografia

TRAMA

Quattro ragazzi. che provengono dalla parte sbagliata del New Jersey, si uniscono per formare il gruppo rock icona degli anni Sessanta, The Four Seasons.

RECENSIONI

Con Jersey Boys, Clint Eastwood potrebbe aver firmato il suo film più kafkiano.
Sí, perché appena dietro la storia dei leggendari Four Seasons c'è una parabola sulla definitiva inaccessibilità della Legge. Prima di diventare il frontman del quartetto, Frankie Valli era solo un ragazzetto che, come molti del quartiere, non disdegnava qualche piccolo crimine qua e là. Solo che, con la sua aria da, appunto, ragazzetto, nemmeno le forze dell'ordine lo prendevano sul serio. Quindi, anche quando insieme ai compagni ruba nottetempo una cassaforte o irrompe in una chiesa per suonare l'organo e cantare, in galera ci va sempre un altro. Per esempio Tommy, originariamente leader e fondatore del gruppo, bulletto maneggione che, a differenza del compare, negli ambienti paramafiosi del New Jersey è capace di sguazzarci come un pesce nell'acqua. Prevedibilmente, man mano che il successo arride ai quattro, la ruspante leadership di Tommy, adatta al massimo al contesto provinciale, è costretta ad eclissarsi in favore di una gestione più scaltra e razionale (quella di Bob Gaudio, appoggiato dallo stesso Frankie). Altrettanto prevedibilmente (in una sceneggiatura piena di echi scorsesiani che Eastwood raccoglie con due dita uno ad uno per buttarli tutti nel cestino più vicino), Tommy nelle retrovie non ci vuole stare, e scalpita e sbuffa e comincia a dare molti, molti problemi. Debiti, soprattutto. Ed è molto interessante notare che quando il film va in cerca della trasgressione originaria a seguito della quale Tommy avrebbe innescato “l'inizio della fine”, non la trova. Si lancia in un inopinato flashback (l'unico, in un tracciato narrativo linearissimo) risalente a due anni prima, dove Tommy viene arrestato – ma per un fatto compiuto un anno ancora prima, di cui nulla ci era stato riferito fin lí. Ma se le cose stanno cosí va da sé che, potenzialmente, di lacune del genere potrebbero essercene a bizzeffe (anche J. Edgar giocava in maniera simile con la reticenza intrinseca al resoconto degli avvenimenti).

Quindi: uno (Frankie) è innocente anche quando non lo è, l'altro (Tommy) è colpevole ma la sua colpa si perde nell'irreperibilità dell'origine (disciolta e assolta nell'indistinto della comunità diffusamente mafiosa). La trasgressione è dunque impossibile. Non si puó trasgredire, se la Legge rimane un'entità aliena e fondamentalmente inaccessibile. Il quartetto viene trascinato da Frankie, un adolescente che non diventa mai uomo: fallisce sia come marito che come padre. E il falsetto “neotenico” che li fa schizzare in vetta alle classifiche, cosí intrinsecamente e fascinosamente acerbo, è precisamente il sigillo di questo permanere al di qua dell'ingresso nell'ordine Simbolico, quello della Legge, del linguaggio, del vivere sociale condiviso, dell'autorità maschile/paterna. È l'ordine che permette il conseguimento di un'identità socializzata, condizione essenziale a che si dia conflitto produttivo nell'arena pubblica.
E invece no, non c'è neanche quello. Niente conflitto. A Tommy, che un tempo lo salvó dalla strada, Frankie infligge l'umiliazione massima: salvarlo a propria volta. E lo salva pagando tutti i suoi smisurati debiti. E tutto finisce lí. Nessuno strascico: niente. Che non ci fosse conflitto, il film ce lo aveva suggerito già in una delle prime scene, quando vediamo un tizio sparare a un altro dopo un violento litigio verbale – ma è tutto un inganno messo in scena da due complici per gabbare Frankie. Ce lo conferma nei bellissimi titoli di coda, quando tutti i personaggi di Jersey Boys, buoni e cattivi, si lanciano nella festosa sospensione di ogni conflitto in una trascinante e compatta celebrazione musical. Tommy era l'unico a credere, a suo modo, nella Legge, non foss'altro che nella Legge Del Quartiere, la quale peró è e rimane costitutivamente invischiata nel suo contrario, nella sua sospensione. Sapere quando fare un favore a questo, dare mazzette a quest'altro: il livello decisivo è quello non scritto in cui la Legge viene meno in supporto della Legge stessa. Nel momento in cui Frankie liquida monetariamente Tommy, la Legge è definitivamente fuori dai giochi, rimpiazzata dal cortocircuito autoreferenziale tra il Capitale e lo Spettacolo.

Perché è questo il punto: abolito l'orizzonte della Legge e quindi del conflitto, arriva lo Spettacolo (diretta emanazione del denaro) ad appianare tutto, a darsi come spietata pacificazione integrale. Lo Spettacolo è il sigillo apposto all'impenetrabilità della Legge, la toppa sull'impossibilità di essere marito, padre, uomo. Non a caso, il gruppo si scioglie proprio quando uno dei quattro decide di andarsene per andare finalmente a fare il padre. E ancor meno casualmente, tre dei quattro componenti si succedono in qualità di narratori interni alle vicende, ma Frankie, il re, fa eccezione. Lui non prende mai la parola: non entra mai nell'ordine Simbolico. Solo nel finale la prende, ma appunto solo durante l'incanutita reunion del 1990, quando il tempo ha finito di livellare ogni conflitto compiendo definitivamente la mutazione in Spettacolo. E quando prende finalmente la parola non racconta nulla di sé, ma afferma che l'unica cosa che gli interessa è l'emergere dello Spettacolo.

Jersey Boys è la malinconica, sottilmente riluttante acclamazione del trionfo dello Spettacolo sulle ceneri della Legge. Del resto, la prima volta che sentiamo Frankie cantare è per coprire i rumori di un furto che stava avendo luogo in un edificio antistante. Rassegnata e malinconica, sí, perché lo Spettacolo trionfa solo rendendo cenere le nostre vite, cenere che il film spazza via con dolente noncuranza: anche i traumi massimi (la morte della figlia di Frankie) vengono subito neutralizzati, si dileguano come foglie al vento.
Il merito, enorme, di Eastwood, sta nell'aver saputo percorrere simultaneamente due direzioni opposte: non solo la convinta acclamazione dello Spettacolo, frontale e senza riserve, ma anche la sua usuale, proverbiale fiducia nel racconto, il quale, essendo l'arma più tipica dell'ordine Simbolico, si pone rispetto allo Spettacolo in direzione ostinata e contraria. Che lo Spettacolo e la scrittura siano allergici l'un l'altra, ce lo conferma peraltro il fatto che Gaudio verga la hit che catapulta il quartetto nell'orbita seduto sull'autobus mentre si reca a casa di Frankie. Il cineasta azzecca dunque un delicatissimo, paradossale, esplosivo equilibrio tra le due contrapposte dimensioni. Non ha perso nulla della qualità “scrivente” dei suoi discreti movimenti di macchina, soprattutto nelle scene di esibizione canora, nelle quali essi fendono come un coltello lo Spettacolo nella sua carne viva. Né ha perso smalto nel districare i nessi narrativi con la dovuta calma, e rimanendo sempre all'interno del loro tessuto, senza bisogno di sovraccaricare di senso ogni passaggio per assicurarsi che lo spettatore lo abbia recepito. Questo semmai lo fanno i pessimi, pseudo-kafkiani Coen de Inside Llewyn Davis, film di cui Jersey Boys è la nemesi perfetta, precisa, in tutto e per tutto.
Eastwood probabilmente concorderebbe con Tommy, quando nella scena del ricevimento di alta società adocchia un quadro astratto a una parete e suggerisce di farlo togliere, perché lí dentro c'è troppa libertà fuori posto. La vera libertà, la si trova solo sottomendosi, diligentemente, alla scrittura, anche quando essa va verso il proprio annullamento in Spettacolo. Kafka ne sa qualcosa.