TRAMA
Un cecchino stermina cinque persone senza apparente motivo. Gli indizi portano a un ex marine: James Barr. Tutto sembra filare liscio, fino a quando il presunto colpevole chiede a gran voce la presenza di un certo Jack Reacher. Lui arriva. Tutto cambia.
RECENSIONI
One Shot
Creato dalla penna di Lee Child e protagonista di una serie di romanzi, Jack Reacher è il tipico fantasma al di fuori del sistema, antieroe che rifugge il mondo contemporaneo con le sue dinamiche di controllo e alienazione, ex ufficiale della polizia militare che ha imparato i mezzi del mestiere e li utilizza seguendo la propria indissolubile morale. Quando serve giustizia, Jack Reacher risolve i problemi. Partendo dal libro per arrivare alla trasposizione cinematografica di McQuarrie, One Shot (2005) è un thriller incastonato nel clima della conspiracy, in cui la chiarezza del caso, l'uccisione di 5 civili da parte di un cecchino e il successivo arresto del presunto colpevole per eccesso di prove, è troppo bella per essere vera. Qualcosa non torna, il fascino del whodunit prende forma pur sapendo dal principio l'attività parallela dei colpevoli, pronti a mettere i bastoni tra le ruote al protagonista. A monte c'è un burattinaio e quindi un complotto, simboli mai tanto attuali nell'immaginario di genere (e non solo), diffidenza verso una realtà ormai divenuta messa in scena, manipolazione perfetta che necessita di essere ri-manipolata con la forza per essere svelata. Il materiale non manca, pur nei limiti di una scrittura mai esaltante, spedita nella progressione degli eventi e nel face to face tra le varie parti in gioco, con dialoghi secchi e diretti, alternando la question di Jack Reacher alle contromosse della banda dello Zek. Incontri, confronti, scontri con una coralità di personaggi, tutta funzionale alla risoluzione di un puzzle che cerca di scoprire quale sia stato il ruolo effettivo di James Barr.
Sullo Schermo
Basta la prima sequenza di Jack Reacher - La prova decisiva per comprendere come il rapporto con il romanzo non si limiti unicamente a una scrematura, ma a un vero e proprio sovvertimento del meccanismo originario: il volto del vero assassino viene messo subito in gioco, azzerando di conseguenza tutto il ruolo, fondamentale, del presunto colpevole. Un ruolo a suo modo interessante che racchiudeva, con qualche approssimazione, tutti i tratti del reduce in bilico tra la vittima e carnefice, assillato da colpe e fantasmi occultati non solo privati, ma anche istituzionali.
McQuarrie va dritto al sodo, riduce i personaggi a una poca manciata, lascia James Barr in coma fino all’agnizione/confessione finale, liquida la traccia legal thriller e concentra tutta l’attenzione sul tough boy Jack Reacher, seguendo quella moda di esorcizzare la contemporaneità, e le sue derive, con un innesto di genere dal sapore vintage. L’iconografia anni 70-80 incarnata dall’ormai onnipresente Tom Cruise (vedi paragrafo successivo) diventa antidoto verso un reale difficile da districare, richiesta di aiuto tanto nostalgica quanto autoironica che dà inevitabilmente i suoi frutti. E non può non far sorridere l’ostentata sicurezza, la lucidità di azione e la semplicità nel risolvere il caso, un approccio così anacronistico che sembra dimenticarsi di colpo di tutte le fragili e (a volte) complesse psicologie del cinema di oggi, dove persino un James Bond cerca di riscriversi e trovare una sua (nuova) posizione. Il Reacher letterario, investigativo, si trasforma in un action hero d’altri tempi tra risposte sempre pronte e inesauribile senso dell’iniziativa, un vero e proprio elemento destabilizzante, un cortocircuito che trova nel classico inseguimento a quattro ruote il segnale più lampante. Guarda caso sul sedile di una Chevrolet Chevelle SS, Jake, rincorso dalle volanti della polizia, pedina furiosamente una nuova Audi RS5 infrangendo ogni codice stradale possibile e dominando la scena con l’assordante rombo della sua autovettura. La sequenza più riuscita del film, in un mare piatto e senza una precisa identità di sguardo, si conclude con la fuga del protagonista grazie all’aiuto della folla, quasi affascinata da questo delirante individuo. C’è bisogno di figure come lui e, pur sottolineandone l’inattuabilità, l’omaggio si presta a gioco rassicurante, divertissement reazionario della legge fai da te (il duetto con Cash – Robert Duvall) a cui non sfugge niente e a cui tutto risulta di facile interpretazione.
Star Cruise
E come calza a pennello a Tom Cruise questa mitologia passata, un attore congelato nel proprio cruisecentrismo, collezionista di personaggi a suo modo Diageneticsi, 'perfetti', consapevoli, automi, dentro e fuori il meccanismo film, in una tragica agiografia (Pelleschi) a tratti insostenibile. La produzione di Jack Reacher porta la sua firma e di conseguenza la macchina da presa si presta a pedante specchio di Narciso, culto della personalità tremendamente sfacciato che riduce le poche riflessioni dell'opera a sorridente immagine da magazine. Quando poi guardando dalla finestra dello studio dell'avvocatessa Hodin (figura cardine nel romanzo, ma qui funzionale solo per le sue scollature e la dipendenza erogena verso l'oggetto del desiderio Reacher), dobbiamo assistere a un sermone su quanto lui sia libero dalle catene dell'illusione, mentre il resto (il mondo) si ritrovi in preda ad ansie, paure, stress e chi più ne ha più ne metta, il tutto inizia a puzzare di tremenda cazzata. Tanto per essere chiari (o Clear come si dice del tanto amato Cruise), non c'è nessuna allusione a Scientology. Nessun complottismo.
(Una parentesi conclusiva sul villain Werner Herzog. Tre sequenze in totale, quattro metri percorsi, due sconce metafore sulla sopravvivenza e su quanto questa sia il vero valore esistenziale. Nel pieno trash mefistofelico il burattinaio Zek è già lo scult del 2013. Probabilmente il regista tedesco ha trovato il budget per un nuovo film. Un aspetto positivo c’è.)
Tom Cruise, produttore di se stesso e della sua icona cinematografica, offre la chance di tornare alla regia a quel Christopher McQuarrie che aveva ingaggiato, non accreditato, per rivedere la sceneggiatura di Mission Impossible: Protocollo Fantasma. Nonostante Bryan Singer abbia firmato le regie migliori con McQuarrie al proprio fianco (Public Access, I Soliti Sospetti, Operazione Valchiria), non sono esclusiva di quest’ultimo le drammaturgie calibrate, sorprendenti, geometriche e coerenti. Se a briglie sciolte, come evidente nella sua prima regia Le Vie della Violenza, il compagno di liceo di Singer non ha idea di cosa sia l’equilibrio fra registri agli antipodi, né è in grado di gestire il ritmo di una drammaturgia. Adattando il nono capitolo letterario delle avventure del Jack Reacher dello scrittore Lee Child, da un lato sottostà al padrone Tom Cruise fornendogli uno spudorato veicolo divistico, autocelebrativo e machista, andando a danno totale del risultato; dall’altro, a random, in un impianto thriller alla Il Giorno dello Sciacallo che si vorrebbe un minimo verosimile, infila sprazzi di commedia e dialoghi che non conoscono la sintesi, fomentano il caos dove non ce ne sarebbe bisogno e offrono riflessioni intimiste-esistenziali culla del nonsense (Reacher che invita il personaggio di Rosamund Pike a guardare i dirimpettai, per riflettere sulla schiavitù nel paese delle libertà). Mentre la figurina di Jack Reacher attraversa il film con scene indigeribili nell’ostentazione della propria superiorità mentale e muscolare, McQuarrie scopre troppo presto anche le carte del “giallo” e il tutto si riduce ad un film d’azione ce-l’ho-duro e di vendetta, per altro annichilito da una regia che cincischia con i personaggi, gli attori che mal governa, le battute prolisse per, poi, poco coerentemente, imbastire scene d’azione lunghissime. Si salvano quest’ultime: l’inseguimento in macchina concluso da una gag simpatica (forse l’unica che non stona), la lunga e scenografica sparatoria nella cava. E si salva Werner Herzog perché, pur con villain sopra le righe, riesce a raffigurare l’uomo nero, senza nome, spietato perché temprato nella sofferenza della sopravvivenza.