La sua ultima fatica, My Crooked Saint per il gruppo To Kill a King, ci porta, ancora una volta, a parlare di Jack King (Bradford, Yorkshire, 1985). L’approfondimento è diretto, provenendo dallo stesso autore di cui, di seguito, offriamo l’intervista.L’ultima opera è un video-drama (così lo definisce lo stesso King) che conferma in pieno la poetica fieramente indipendente del regista inglese, impostasi quest’anno per la sua pauperistica originalità, il suo sguardo su una certa realtà tipicamente britannica, senza speranza, abitata da anime perse, per il racconto punteggiato da immagini dissonanti ed enigmatiche. Diviso in quattro parti (in rete è ora disponibile in un’unica soluzione della durata di una ventina di minuti), ambientato in un sobborgo dello Yorkshire, The crooked Saint illustra, con il consueto stile pararealistico, una stessa giornata vista dai diversi punti di vista dei personaggi coinvolti. Al solito grande rilievo è dato alla scrittura ad assecondare le inclinazioni di un autore che sembra sempre più usare la videomusica ai suoi scopi, imprimendo il suo personale stile e la già inconfondibile marca visiva per rivendicare l’autonomia del discorso filmico rispetto a quello prettamente musicale.
Nei tuoi videoclip le immagini hanno un ruolo autonomo, non di semplice commento alla canzone. E non esiste mai la performance dell’artista. Continuerai a muoverti in questa direzione?
Ascolto sempre le tracce intensamente, cerco di penetrarle, di tirarne fuori le più piccole sfumature e interpretarle visivamente in qualche modo; mi impegno a fare questo senza schemi prestabiliti e creando personaggi e ambientazioni con cui mi possa relazionare emozionalmente. Credo che sia più importante del presentare il cantante o i performer, e penso che funzioni meglio anche come “promozione” per la semplice ragione che risulta più coinvolgente. Comunque, visto che mi piacerebbe vivere con i video musicali, penso costantemente a dei modi per integrare i performer nel video secondo una modalità che mi soddisfi e mi permetta di divertirmi, ma senza essere obbligato a stare su un set solo con la band, dicendo come bisogna tenere gli strumenti o cantare la canzone.
In Cold skin addirittura la musica sembra fungere da semplice colonna sonora, visto che a tratti lasci spazio ai rumori d’ambiente. Deduco da questo che la tua ambizione va oltre il videoclip…
Assolutamente, la mia ambizione non è mai stata di girare video musicali, ma è più facile per me fare questo al momento perché la musica mi offre dei parametri creativi. So subito di che genere deve essere il film, quanto deve essere lungo, so quando gli eventi devono accadere, quando le cose debbono raffreddarsi, rallentare, andare più veloce. E’ utile avere già a disposizione una struttura in cui muoversi perché questo ti consente di buttarti subito nella creazione, nel divertimento, nella fase immaginativa.Ma un giorno vorrei scrivere e dirigere lungometraggi e quindi i video musicali per me sono un modo per giocare e sperimentare col contenuto, imparando bene la tecnica, per scoprire dove sono miei punti di forza e le mie debolezze. Finora è stato molto illuminante.
Già da quel videoclip si manifestano alcune caratteristiche del tuo lavoro: un approccio fondamentalmente realistico nel quale si innestano elementi devianti ed enigmatici. Da dove trai le tue visioni?
Credo di essere un ottimista, voglio esserlo, e così, nonostante sia stato tutta la vita residente del “grigio nord” non mi sento costretto a scrivere o fare cose che riflettano o combinino una cinica o prosaica visione della realtà della vita. Non ho alcun interesse a fare del gretto realismo perché la superficie della realtà e delle persone che la abitano non è ciò che mi interessa o mi ispira, ma piuttosto le caratteristiche infinitamente bizzarre, confuse, contraddittorie e metafisiche che giacciono sotto di essa e che talvolta affiorano in superficie. Non voglio riportare la realtà o farne un commentario, voglio soltanto rappresentarla in un modo differente – un qualche genere di modo che idealmente non mi deprima -.
I bambini hanno sempre un ruolo di spicco, a volte costituiscono lo sguardo privilegiato dei tuoi video.
Vedo nei bambini la metafora definitiva. Per me, dando al bambino un punto di vista privelegiato su qualche cosa, si rende la realtà della cosa come percepita in maniera meno certa di quanto potrebbe esserlo da un adulto, e in un modo che io penso sia più vero. Come bambino tu saresti generalmente meno cinico, meno prevenuto, meno inscatolato in una tua propria realtà: vedi veramente di più. Tutti si relazionano con questa esperienza e così una grande parte di me è attratta dal fare film che rappresentano eventi reali, ma visti attraverso gli occhi o l’immaginazione di un bambino. A un altro livello i bambini crescono e dimenticano o, guardando indietro da adulti, vedono le cose in modo differente. C’è tristezza e bellezza nella nostalgia che continuamente affligge la mia mente ed io penso che in qualche luogo, lì dentro, risieda questa mia tendenza a ricorrere ai bambini.
Il bambino protagonista di L.A. Lights per Hourglass Sea (V|M_8/11) esorcizza l’immagine tormentata che ha dei genitori? Ancora una volta la narrazione suggerisce e non dà certezze.
L’intero video si pone in qualche luogo tra i sogni del ragazzo, la sua immaginazione e la distopia di un ipotetico futuro: stabilire dove ciascuno di questi livelli paralleli comincia e l’altro finisce spetta interamente allo spettatore. Volevo che il video funzionasse come una metafora, ma anche, per quanto possibile, come la storia di un ragazzo orfano che sogna di avere una famiglia, e che guidato dal suo subconscio, coglie l’opportunità per tentare di farlo accadere.
Hai dei registi, di video o cinematografici, che ami particolarmente?
E’ facile dire quali sono i miei registi preferiti; in ordine casuale: Takashi Miike, Kiyoshi Kurosawa, Lynne Ramsay, Shane Meadows, Takeshi Kitano, Luis Bunuel, Nicolas Winding Refn, Michel Gondry, Lars Von Trier, Harmony Korine… Ce ne sono moltissimi. Ho un debole per il cinema giapponese come puoi vedere, ho cominciato a guardarlo che avevo quindici anni ed è ciò che mi ha formato e portato ad essere un regista. Amo quell’estetica e la sensibilità di scrittura. Adam Hashemi e Martin De Thurah sono forse i miei registi di video preferiti, ma guardo e amo un sacco di video. Ne ho appena visto uno oggi che rappresenta uomini con delle teste al posto dei peni che mimano le parole della canzone [Big Bad Wolf – Duck Souce, diretto da Keith Schofield – NdR]. La mia giornata ha svoltato.
Considero Fictional State (V|M_4/11) uno dei migliori video di quest’anno. In quel caso disorienti lo spettatore mischiando la narrazione della storia con lo svelamento della messinscena, ma il confine tra verità e finzione è molto incerto.
Mi fa veramente piacere! Sì, l’idea del video era assolutamente quella. E’ stato uno dei miei video preferiti da girare, perché l’atmosfera sul set era così surreale e autoreferenziale, soprattutto per alcuni membri della troupe che recitavano; mentre provavamo le cose, ero consapevole del fatto che la stessa troupe che girava viveva in qualche luogo tra gli spazi che stavamo tentando di catturare nel video. E’ difficile da spiegare ma c’era un buon feeling, soprattutto perché la fine delle riprese ha coinciso con l’ultima scena girata in interno, quando tutti applaudono: gli attori che incarnano i personaggi sono calati nel film a cui la troupe sta lavorando e in cui tutto appare come una fiction all’interno di una fiction… Se afferri cosa intendo. E’ stato stranamente appagante e una delle mie migliori esperienze.
La tua collaborazione con Matt Green in Mr Blood (V|M_1/11), un lavoro piuttosto peculiare nella tua videografia, com’è nata?
Matt è un buon amico ed un ragazzo talentuoso con molta energia creativa, così era perfettamente sensato che si finisse per collaborare a qualche progetto. Matt aveva fatto degli storyboard che erano veramente impressionanti e ben concepiti e ha stimolato la mia leggera ossessione per il body horror giapponese; così abbiamo cominciato a lavorare e combinato le nostre sensibilità per scrivere qualche cosa di più grande e più folle di quanto ciascuno di noi avesse fatto prima. Abbiamo prodotto e finanziato il video: avevamo più dipartimenti, troupe e responsabilità generale di quanto ne avessi mai avuto prima; è stato davvero istruttivo. Il lavoro era più libero. Mi è piaciuto davvero anche solo ridere, rimpallarci altre ridicole idee e capire che in fondo eravamo matti, ma che comunque saremmo riusciti a farlo nonostante il casino in cui c’eravamo cacciati. Non ci stavamo prendendo sul serio e questa è una delle ragioni importanti per le quali alla fine siamo riusciti a cavarcela. Certamente faremo ancora delle cose insieme in futuro.
La tua ultima collaborazione con i To Kill a King ha portato a quello che tu consideri un cortometraggio in quattro parti. Ci parli del tuo rapporto con la band e della scelta delle ambientazioni dei loro video? Credo che quasi tutti i tuoi video siano stati girati nello Yorkshire.
Sono amico di Ralph, il cantante, da quando avevo diciassette anni e ho incontrato gli altri ragazzi attraverso lui, mi sento privilegiato a lavorare ancora con loro anche dopo che sono stati scritturati da una major e amo il fatto che viaggiamo sulle stesse lunghezze d’onda. La loro musica mi entra in maniera immediata ed è bello avere l’opportunità di aggiungere qualcosa ad essa. Ogni video che ho fatto per loro è stato filmato nello Yorkshire, quasi esclusivamente a Bradford. Loro hanno questo suono inglese onesto e grezzo e credo che Londra e altri posti del genere siano troppo alla moda e disconnessi da certe realtà per poter rappresentare le canzoni per le quali io ho girato i video. Io e Ralph siamo cresciuti vicini, così quando mi dice di cosa tratta una canzone sono sicuro che partiamo da un immaginario comune. Abbiamo girato la serie My Crooked Saint in un quartiere di Brafferton, per tre ragioni: c’erano i cavalli, era un posto diverso da tutti gli altri e perché vi era già stato girato un film sul drammaturgo Andrea Dunbar, così sapevo che la gente del luogo sarebbe stata comprensiva. Tutti sono stati amichevoli, non c’era l’atmosfera minacciosa che avevamo ravvisato negli altri posti nei quali avevamo fatto le nostre ricognizioni, sono stati tutti carini. E poi c’erano i cavalli. Mi piacciono i cavalli.
Ci parli degli script dei tuoi video? E’ evidente che la scrittura ha un ruolo prioritario; come dicevo prima, la narrazione è sempre ambigua e aperta, mai univoca e lasci molto spazio all’interpretazione dello spettatore.
Sono contento che tu lo pensi, è sicuramente mia intenzione quella di creare video secondo le modalità che hai descritto. Tendo a scrivere un’idea come se fosse un film, pensando sempre alla storia, alle convenzioni della trama e alla mia relazione emotiva con i personaggi e e le loro motivazioni, ma la piattaforma del video musicale mi consente di destrutturare tutto questo e di dire le cose in un modo molto diverso. Trovo una nuova ispirazione ri-pensando in questo modo alla forma della storia, e spesso rivoltandola nelle sue increspature, il che conferisce all’intera cosa un significato totalmente nuovo che è di solito più ambiguo, più sbrindellato e visualmente criptico di quanto fosse all’inzio; ma so che questo è il modo corretto di procedere se l’integrità del lavoro tiene e io ho lavorato duro per ottenerla.
– My Crooked Saint [Ep Series] – To Kill a King (settembre 2011)
Quattro video girati in quattro giorni per Virgin Records. La più grande sfida della mia vita.
– L.A Lights – Hourglass Sea (giugno 2011)
Video low budget girato in due giorni in una cava e in siti industriali della mia città natale.
– Fictional State – To Kill a King (marzo 2011)
Girato in due giorni in una casa abbandonata, il primo video commissionato e prodotto da qualcun altro.
– Mr. Blood – That Fucking Tank (novembre 2010) – co-diretto con Matt Green (come JakoMat)
Due mesi di preparazione, troupe all’osso e pochi soldi, quattro giorni di folli riprese in un magazzino in campagna = l’esperienza più formativa della mia vita.
– Tough at the top – Benjamin Stead (giugno 2010)
Video no-budget fatto con amici per un amico, grande divertimento.
– Cold skin – To Kill a King (marzo 2010)
Il mio primo vero video per i To Kill a King ancora senza contratto, incredibile cast e troupe.
– Tape worms – Anthony Sparke (novembre 2009)
Il mio primo video di sempre, girato in una notte nei boschi. Pioggia, vento, generatori, proiettori. Non avevo assolutamente idea di cosa stessi facendo.
[grazie a Roberto Tallarita]