
TRAMA
Jay ha un incontro sessuale con un ragazzo che le trasmette una maledizione: la perenne, (fondata) paura che qualcuno la segua per ucciderla.
RECENSIONI
L’horror è il meta-genere per antonomasia. Ben prima che che Wes Craven esplicitasse la cosa con la serie Scream, era evidente che gli artifici linguistici connaturati al genere, la tecnica esibita e sovraesposta, il gioco scoperto e sfacciato con lo spettatore, la gestione strategica delle informazioni e dei punti di vista fossero (sempre stati) tutti elementi naturalmente al secondo grado. Se poi ci si rivolge, ad esempio, agli horror / slasher anni 80, si trovano molti topoi narrativi talmente ricorrenti da diventare, di nuovo, autoreferenziali: la giovane età dei protagonisti, la tendenza degli stessi a fare stupidaggini irrazionali (ficcandosi nei guai), il sesso punito spesso con la morte. It Follows prende atto di quanto scritto finora ma cerca, in modo evidente, di dire qualcosa di nuovo e di diverso, contaminando il genere con istanze da cinema d’autore / indie modello Sundance (cfr. Babadook) e riproponendo vecchi stilemi sotto una luce rinnovata. Il sesso diventa veicolo esplicito di morte/maledizione, il 'mostro' è lento ma implacabile (Michael Myers, i morti viventi romeriani), lo score rimanda chiaramente a Carpenter, il concetto di epidemia è molto nipponico (il pre-finale in piscina cita chiaramente Ringu 2) così come altri particolari iconici (la camminata alla Sadako) e tutti gli altri già citati elementi classici dello slasher vengono come risemantizzati e reinseriti in un contesto più serioso e autoriale [gli innamoramenti postadolescenziali, la ragazza carina e intelligente tendenzialmente facile vista sotto una luce nuova, moderna e scevra di giudizi morali(stici)]. Tutto, si diceva, cucinato in salsa auteur, con tempi dilatati, digressioni, pause e deviazioni trans-genere. E il citazionismo che non si ferma a quanto si è già scritto ma va più in profondità, prendendo ad esempio il meglio di James Wan, quando in Insidious giocava molta della capacità di spaventare del film sull'esplorazione del profilmico da parte dello spettatore, a caccia del dettaglio significante, rinunciando sistematicamente al particolare splatter, rinuncia alla quale Mitchell aggiunge anche quella alle improvvise sparate audio e alle apparizioni dal nulla, quasi del tutto assenti. Perché in It Follows, la paura è quella del guardarsi intorno, dell'incombere, dello straordinario che emerge dall'ordinario, del Perturbante vero e proprio, con il familiare che diventa - o potrebbe diventare - estraneo e spaventoso sotto i nostri occhi di spettatori. E non è un caso che il movimento di macchina più insistito e ricorrente sia quello della panoramica circolare, sorta di falsa soggettiva con cui si ottiene la sovrapposizione, soprattutto emotiva, tra spettatore e personaggio, in un crescendo di ansia attentiva e di paura. Tutto bene quindi? Non proprio. Le arcinote rimostranze di Tarantino non sono campate in aria, perché in effetti la coerenza interna della sceneggiatura non è solidissima, tra forzature poco giustificate (perché Jay viene narcotizzata e lasciata seminuda sul selciato, al momento del primo passaggio di testimone? Era proprio necessario? E tutta la sequenza della morte di Greg non è un po' oscura, amplesso mortifero con la madre incluso?), novità introdotte d'emblée (le presenze che non si limitano a inseguire ma architettano controffensive e diversivi, come nel pre-finale in piscina), soluzioni un po' banalizzanti rispetto alle premesse (con derive tendenti al ridicolo, tipo Uomo Invisibile) per concludere con una convivenza forse un po' forzata tra il cinema autoriale (metaforico?) e quello Horror più classico che comunque, a tratti, emerge in maniera piuttosto netta. Mette a posto quasi tutto il finale vero e proprio, bellissimo, giustamente sospeso, concettualmente omologo ad altri mille finali ma non banale come quei mille, e genuinamente inquietante.

Al secondo lungometraggio, David Robert Mitchell si fa notare con un film dell’orrore dall’idea molto originale ma non espressa in tutte le sue potenzialità: coniuga e ribalta il topos dell’horror per cui, se fai sesso, muori. A livello di messinscena, Mitchell ostenta lunghe pause, anomalie varie non appartenenti ai codici di genere, un ruolo centrale dato alla letteratura “alta” (Dostoevskij) e un coacervo di passioni infantili fra musiche elettroniche alla Carpenter e citazioni di fantahorror (Guerra tra i Pianeti, Voyage to the Planet of Prehistoric Women). Pare ripercorrere le orme di Richard Kelly, fra misteri con ordinata periferia borghese di Donnie Darko e tema “morale” di The Box (uccidere gli altri per proprio tornaconto): tutto autorale, come la chiusura sospesa, omettendo spiegazioni su genesi del fantasma e modi di combatterlo. Vari dettagli segnalano che il racconto è allegoria del disagio della protagonista: nella scena finale è suo padre (lo riconosciamo da una foto) che l’attacca (Mitchell ha citato Repulsione); c’è questa ricorrenza dell’acqua, dalla piscina come liquido amniotico protetto, al mare aperto dove si muore, fino alla piscina “grande”, “estranea”, dove la protagonista affronta le paure per debellarle; a un certo punto, Jay appoggia cinque fili d’erba sulla gamba e il fantasma le lascerà cinque graffi (come autoinflitti). Sono senz’altro efficaci le varie maschere dello spettro assassino e l’operazione incuriosisce per i modi non convenzionali con cui è realizzata ma il talento di Mitchell, qui evidentemente debitore-fan del cinema anni Ottanta, avrebbe dovuto dedicarsi maggiormente a elaborare l’idea di genere anziché dipanarla stiracchiata in modi di fare che appaiono vezzosi se costretti in codici più stereotipati.
