TRAMA
Li è una donna cinese immigrata in Italia. Lavora in una fabbrica tessile a Roma, quando viene trasferita dai suoi superiori in un piccolo bar di Chioggia, periferica città lagunare. Lì, lavorando per ripagare i debiti del viaggio e ancora in attesa della “notizia” in grado di portare in Italia il figlio piccolo rimasto in Cina, prende confidenza con gli habitué del bar imparando a conoscere luci e ombre della vita di provincia. In particolare, fa amicizia con Bepi, pescatore di origini slave noto tra gli amici come “il poeta”.
RECENSIONI
Il titolo è bifronte: l'avverbio di luogo diviene nome proprio di persona, sineddoche esemplare di una dissociazione identitaria, dolorosa come l'ubiquità affettiva di chi è costretto ad emigrare. Andrea Segre, documentarista al suo debutto narrativo, racconta con rigore e sensibilità la storia di Li, immigrata nella piccola città lagunare di Chioggia ma con il cuore rimasto in Cina, vicino al suo bambino. La delicata cronaca del suo incontro con un'altra solitudine apolide - Bepi, pescatore croato in Italia da oltre vent'anni - s'intreccia alla denuncia pacata di un'integrazione mancata, con la tenera amicizia a immolarsi a dialogo interculturale ferito, prima bandito dai datori di lavoro di Li e poi soffocato da pregiudizi e malignità paesane. Lieve e disadorno, Io sono Li sa però evitare bozzetti caratteriali e facili manicheismi: di là dal minimalismo narrativo, il ritratto dei personaggi - tanto dei due stranieri come dei comprimari chioggiani - è vivido e chiaroscurale, tutto giocato su sottili cambi di registro e toccanti sfumature psicologiche, risultando credibile anche nel tratteggio del grezzo villain interpretato da Battiston, rappresentante di certa ottusità provinciale e xenofoba. D'aspra leggerezza anche le immagini, vicine all'urgenza documentaria ma sempre d'indisturbata sobrietà compositiva - a smussarne le spigolosità concorrono solo il commento musicale, pervasivo e a tratti molesto, e l'insistenza sul dettaglio poetico, evidente in special modo negli scorci lagunari, pennellate d'ambiente rapide e (quasi) mai stucchevoli. L'opera prima di Segre si mantiene così equidistante da lirismi e sociologismi, pedinando una storia d'amore accontentandosi di sussurrarla, senza bisogno d'inamidarla nel canone romantico o di strumentalizzarla in parabola politically correct, interrogando invece le possibilità della poesia come ponte tra culture diverse, incaricandola di far fronte alla diffidenza glocale e rintracciando nella solidarietà umana la sola forma di resistenza possibile per chi è violato dalla frontiera (così si urlava in Machete, radicale inno all'apolidia militante su cui sarebbe bene tornare). Almeno fino alla chiusa obbligata, dove la storia reclama il suo primato sui personaggi, Io sono Li è cinema di poesia umile e ostinato, non distante da Jarmusch nel simpatizzare con apatridi ed emarginati senza ridurli a funzioni di un discorso, ma liberandone anzi la varia umanità, mostrando quanto sia lucido e necessario lo sguardo alieno di chi è straniero nella propria nazione.
Un esordio a suo modo felice, dunque, visione antipodica e antidotica - in tema d'immigrazione - rispetto all'inverosimile macchiettismo di Cose dell'altro mondo e allo sciacallaggio formalista di Terraferma, il primo riducendo un soggetto esemplare, da apologo cittiano, in stranìta italo-soap stretta in ' camere e cucina', il secondo - forte di proclami urgenti ma auto-assolutorio nell'animo - mummificando l'alterità degli immigrati in maniera egualmente maldestra e schematica. Dei migranti Patierno si limitava a rimarcare l'invisibilità preziosa, riducendoli a pedine necessarie all'economia italiana ma privi di vita interiore, non diversamente da Crialese, che - giustificando l'opera come bildungsroman avulso dal suo tempo - li rappresentava come totaliter aliter da plasticizzare senza troppi scrupoli, prova ne erano i primi piani totemici sulla donna immigrata (congelata in sfinge d'ebano), l'inopportuno pietismo nel soffermarsi sui cadaveri dei migranti (in estetizzante ralenti), e l'incursione notturna dei clandestini (violentemente fuori registro). Entrambi i film ben testimoniavano l'incapacità del recente cinema italiano di riflettere su realtà (e politiche) migratorie se non per svilirle a puro pretesto: l'inoffensiva muzak visiva di Cose dell'altro mondo prendeva parodico spunto dai tele-sproloqui razzisti di Prosperini (la figura di Golfetto ne è una chiara caricatura) al solo fine di sacrificare le originali potenzialità critiche nel nome di un addomesticamento catodico di poco dissimile, culminando con buonismo e somma superficialità nell'ebete rifiuto a trarne le debite conclusioni - tanto tramiche che politiche - e in tal modo disattendendo i suoi stessi presupposti; così in Terraferma, dove si tumulava la sacrosanta denuncia di una legge criminale sotto comodi manierismi e paesaggismi da cartolina, dando fondo a bassezze drammaturgiche (il ricordo dello stupro in carcere, quasi un'eco del jackpot di tragedie inanellate dal temibile La donna che canta), immarcescibili tic ideologici (il mito degli 'italiani brava gente' è nevrosi ben leggibile dietro l'esasperata contrapposizione tra il buon popolo e il sadico Stato) e corto-circuiti tra fiction e realtà ai limiti dell'accettabile (il rimando posticcio alla guerra in Libia, peraltro aggravato dalla forzatura esposta due parentesi fa, e il discutibile coinvolgimento attoriale di Timnit T, dal luttuoso passato di clandestina scampata al naufragio).
Proprio al sontuoso cenotafio allestito da Crialese sembra rispondere Bepi, il poeta di Io sono Li, quando al figlio precisa di non essere morto, ma d'esser semmai solo: se le esequie premature non sono che tentativi d'espropriazione linguistica, come a voler parlare in loro vece, nel film pur laconico di Segre la lingua dei personaggi - stranieri e non - non viene silenziata nè unificata, al contrario degli immigrati afoni o italofoni di Terraferma e Cose dell'altro mondo, bensì ripartita tra cinese e dialetto chioggiano in dialoghi parimenti sottotitolati. E seppur inciampando in un finale prevedibile e ridondante, colpevole di guastare lattenta orchestrazione di semitoni fin lì dominante, e scontando una timidezza di sguardo che tutto affida ai pur intensi interpreti (debolezza certo perdonabile a un'opera prima), Io sono Li affronta proprio quel che inspiegabilmente le opere di Patierno e Crialese ignoravano, il nocciolo dolorosamente umano della questione, noumeno emotivo svestito di bozzetti e mitologemi - affiancandosi sì ai film sopracitati per gl'identici groppi tematici (di Cose dell'altro mondo lo status degli immigrati nel tessuto sociale ed economico del Nord-est italiano; di Terraferma il dilemma morale e culturale di un Paese - miniaturizzato a regione esemplare - di colpo passato da patria d'emigrati a terra d'immigrazione, incattivitosi poiché immemore della propria identità, essa stessa migrante e contadina) ma da essi distinguendosi per cura e(ste)tica nell'intrecciare figure e scenari attuali (complice il background documentaristico di Segre, già avvezzo a raccontare di migranti e territorio veneto) a suggestioni poetiche tenui e memorabili, come il ritratto lunare e quasi fatato di una città bagnata dalla marea.