Drammatico, Sala

IO E TE (2012)

NazioneItalia
Anno Produzione2012
Durata103'
Tratto dadall'omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Lorenzo, quattordicenne problematico, mentre tutti credono che lui sia partito per la settimana bianca scolastica, si rinchiude in cantina.

RECENSIONI

Io, te. Ricorrenze di Bertolucci ovunque. Del Bertolucci massimalista in formato da camera, quello di La luna e Io ballo da sola, di Ultimo tango a Parigi e L’assedio. Quello che in Io e te, adattamento (con piccoli, intelligentissimi slittamenti) di un romanzetto di Niccolò Ammaniti (secco tanto da apparire o aridamente mediocre o completamente aperto al possibile), minia, come sempre, una scena psichica kitsch, sfacciata, spregiudicata: Lorenzo, ego grandioso, si chiude in sé. E nel comodo buio di una cantina, che è chiaro inconscio, incontra Olivia. Figurazione di se stesso, di sua madre, traccia di una figura assente, il padre, che è l’assenza vicaria di un controllo (perciò non ha volto: è lo psicanalista a rappresentarlo, a farne le veci). Lorenzo, infine, cresce. Assume il controllo di se stesso nell’abisso. Rinasce in piena luce, lungo la strada di una dimensione sociale ripresa grazie a Olivia, al suo bisogno, alla sua sofferenza. Lorenzo comprende, in ogni senso, la dipendenza. Perché dalla lirica di Ragazzo solo, ragazza sola al Major Tom di Space Oddity, da una separazione a un incontro, c’è uno scarto. Una crescita, una rivoluzione. Io e te è teatro della mente con camerini, retroscena, costumi, è una danza virtuosistica e urgente su un palcoscenico minuscolo, un cinema che fa respirare insieme vita e proiezione: sulla pellicola si fa traccia testuale l’handicap di Bertolucci, lo sguardo di una persona costretta a vedere e reinventare la visione da una sedia a rotelle (Sedia elettrica si intitola il bel making of di Monica Stambrini), si definisce, come fosse un teen movie girato da Renoir, un artificioso cinema vérité pronto a cogliere le tensioni di cui vibrano i corpi di Jacopo Olmo Antinori e Tea Falco nell’incontrare Lorenzo e Olivia, in un erotico equilibrio variabile sul filo che separa la recita dalla biografia. (E il fatto che la meravigliosa Tea Falco - attrice esordiente, fotografa esaltante trattata dai più come una parvenu - sciorini sue immagini, racconti della sua poetica, del suo farsi parete, del suo volersi sciogliere nelle cose, è solo la vertigine di questa osmosi continua).

Per Bertolucci è necessario farsi clandestini, essere fuori, essere sotto, provare a sciogliere l’Io nel Te, il centro nei margini, per riuscire a comprendere. Per questo Io e te è opposto e complementare a The dreamers. Per questo è un’allegoria politica mentre quella era riflessione privata. Un riflesso, che scientemente si privava del mondo. Il resto del cinema italiano impallidisce, giovani autori e narratori di giovani compresi. Perché Io e te ti si stampa negli occhi, cinema vitalissimo, pregno di ossessioni ombelicali e desideri di fuga, abitato da una sublime ronde di proiezioni: non bastano 40 visioni successive, una mole di altre immagini, ad obnubilare il preciso ricordo di Olivia e Lorenzo abbracciati sulle note di Bowie. Perché Bertolucci, detto chiaramente, sa fare qualcosa che nessuna recensione può restituire nella sua lampante evidenza: creare immagini che non si dimenticano.

Alcuni anni fa, L'assedio (1998) segnò una nuova svolta nel cinema di Bernardo Bertolucci. Dopo essere stato Autore nei decenni del cinema d'Autore, e dopo aver successivamente espanso  (dall'Ultimo imperatore in avanti) l'ampiezza dei suoi proverbiali movimenti di macchina fino ad abbracciare il mondo intero, reinventandosi cineasta internazionalmente co-prodotto e globalizzato, il cineasta parmense tornò a un'ottica ultraminimale. Ottica di cui questo Io e Te è il trionfo, essendo in gran parte girato in uno scantinato - quello dove si nasconde per una settimana il solitario quattordicenne (di ottima famiglia) Lorenzo, in piena crisi puberale, fingendo di essere in gita scolastica sulla neve. È lì che incontra Olivia, poco più grande, sua sorellastra (il padre è lo stesso) con un passato da promettente fotografa schiacciato dall'eroina.
Già dai titoli di testa, l''io' e il 'te' non cessano di scambiarsi continuamente le parti. In effetti, mai come stavolta la dinamica di base del cinema bertolucciano è chiara: seguire la deriva estetizzante/narcisista fino all'estremo, guardarsi l'ombelico fino a incontrare al proprio intimo qualcosa che con il 'soggetto' non ha più nulla a che fare, qualcosa di estraneo, alieno, respingente come la pietra, irrecuperabile a qualsiasi cosa si voglia chiamare 'se stessi'. Solo portando agli estremi la propria deriva solipsista (che non disdegna fantasmi incestuosi), Lorenzo la supera. Meglio: solo incontrando la propria deriva solipsista fuori di sé, sotto forma di Olivia (tossica, infatti), la cui pelle (lo dice lei stessa) è un muro. Per quanto Lorenzo, Narciso dilettante, si eserciti dentro il lavandino a immergersi nella propria immagine senza affogare, non riuscirà mai a specchiarsi in un'immagine di sé; l'unico specchio in un film che di specchi sarebbe straripato se a dirigerlo fosse stato un regista mediocre, riflette non Lorenzo, ma Lorenzo che chiude la finestra poco più in là. Nessuna identità per il soggetto - ma solo l'atto attraverso cui il soggetto ogni volta crede di costituirsi. E ogni volta non è mai l'ultima.

Ecco perché lo spudorato narcisismo cinematografico di Bertolucci finisce (grazie al cielo) per superarsi nella misura in cui sullo schermo non ci finisce lo 'stile' del 'Grande Autore', ma uno stranissimo vuoto pneumatico (quello del soggetto che si immerge nello specchio fino a non riconoscersi più) attraversato di tanto in tanto da scosse registiche, accensioni visuali che fanno balenare il fantasma della Bellezza fluttuante letteralmente sul nulla. Una ricerca della Bellezza che non finisce mai e ricomincia sempre scintilla dopo scintilla (ogni volta non è mai l'ultima), una specie di 'buddismo mancato' (se ne rende conto Olivia stessa: vorrebbe essere buddista ma sta sempre incazzata, non può dirsi tale) che corteggia costantemente il nulla ma incontra continuamente una rimanenza inassimilabile. E questa rimanenza che brilla nel vuoto, è la Bellezza.Bellezza che Bertolucci non si stanca mai di cercare, incurante di qualsiasi altra cosa. Per questo ha molto più a cuore trovare attori dalla fisionomia perfetta (Jacopo Olmo Antinori, Tea Falco) che dirigerli (uno spaesato Pippo Delbono, una Sonia Bergamasco che non sembra la brava attrice che quasi sempre dimostra di essere). Non è nemmeno più indispensabile costruire i virtuosistici movimenti per cui la sua macchina da presa è giustamente famosa: nello spazietto di quello scantinato, il movimento è tutto mentale, sono le scintille che gli occhi producono nel non incontrare l'immagine allo specchio di colui al quale quegli occhi appartengono. Se Lorenzo trova finalmente il mondo esterno è perché si chiude fino a trovare quel punto in cui non può continuare a chiudersi oltre - meglio: trova fuori di sé l'immagine del proprio chiudersi. Una specie di Edipo che si risolve non risolvendolo, ma portando al limite l'impossibilità della sua risoluzione. Non una cosa da poco in un Paese che sembra un monumento a cielo aperto all'impossibilità di superare Edipo, un Paese che sembra eternamente bloccato in un'eterna adolescenza, giustamente rappresentato per una ventina d'anni da una 'elite' 'istituzionale' che ha dato prova di clamorosa immaturità sessuale vantandosene pubblicamente.

Io e te gioca da subito con il paradosso. La cantina è l’incubatrice involontaria in cui Lorenzo che si rinchiude per essere libero, in un momento della sua vita in cui sa già di essere anomalo per gli altri ma non lo è ancora per se stesso: immediato, assoluto come siamo abituati a pensare un adolescente, dimenticando a volte come quell'assolutezza abbia senso solo vista con il senno di poi, lasciando incolori le sfumature di allora. Si nasconde, e crede che questo basti, almeno per il momento: assoluto 'qui e ora', di fronte a cui si apre ancora tutto, ma tutto può essere anche contenuto per un attimo lì, tutto intero, senza rinunce e senza attese. Tutto deve ancora iniziare, senza dover ricominciare.
Per Olivia nascondersi è l'ultima occasione per uscire e entrare altrove: mettere in atto una strategia di disintossicazione, ricostruirsi un'innocenza perduta, mentre lui, forte della sua ingenuità e di quell'innocenza, può permettersi di aspettare. Quella di Lorenzo non  è una ricerca, non potrebbe esserlo, e in questo è pienamente credibile: è un'affermazione per se stesso ancora muta, è un dato di fatto che non comunica, è la soddisfazione di un bisogno che non è ancora progetto. Non è la rinuncia scettica e cinica dello spiantato e dell'emarginato, non è la fuga dall'inadeguatezza né la protesta contro l'inadeguato; è l'isolamento di chi ancora non conosce la solitudine, di chi può inventarsi dei riti e crederci come crede di avere un nome, di chi ha davvero 14 anni perché non ha il senso del ridicolo e si prende sul serio senza potersi domandare se è normale, ma con la stessa tenera incoerenza si preoccupa di non dare un dispiacere a chi a quella domanda ha già dato risposta; è Bastian che si chiude in una soffitta e apre il libro senza sapere cosa lo aspetta, anzi, senza aspettarsi nulla, e solo per questo può disporsi all'inatteso.

Olivia è la disperazione del prevedibile: per Olivia dopo la cantina non c’è il possibile ancora aperto e mai esplorato; Olivia dopo la cantina è il dubbio, il dilemma, spietato perché Lorenzo stesso lo rimette in gioco con un gesto di ingenua premura, dandole di nuovo in mano il suo destino e la libertà che non si risolve nell’evasione dall’evasione. Il pacchetto delle sigarette è la scelta irrisolta da ripetere ancora, è la possibilità che resta aperta, la storia che non finisce nell’emendazione dell’imperfetto per essere accolti di nuovo, ma costringe a fare i conti con sé, a scegliere da dove guardare; commuove che sia proprio lei, che si trascina addosso l’irreversibile, già ‘saputa’, già ‘vissuta’ e prigioniera, a spingere Lorenzo a iniziare il viaggio verso l’imponderabile.
Se c’è una grandezza in questo film non risiede però nelle pretese esistenziali del soggetto, quanto forse piuttosto nel tentativo di tenere la narrazione sospesa in quella situazione unica e non riproducibile in cui si assorbe un evento, un’esperienza senza saperne esplicitare gli effetti, senza stabilire e quantificare il cambiamento, senza percepire il punto di partenza e dunque senza poter dare conto dell’arrivo: l’adolescenza dunque nella curiosità, nel turbamento di illusioni che cadono senza avvertirne ancora il peso, in un sessualità che ha lo stesso appeal di un formicaio in costruzione, nell’annuncio della vita, nel desiderio ancora da scoprire. Una tensione nascente ci porta a immaginare Lorenzo che un giorno, ripensando a quella notte con Olivia che balla sinuosa e potente, e all’improvviso lo abbraccia e lo stringe, potrebbe ricordare una canzona che parlava di una città piena d’amore, di disperazione e  di una notte in cui sparire. Gli tornerà forse in mente, tra i capelli biondi, un dolore sconosciuto, e di un gioco di cappelli per ridere di sé; si ricorderà forse anche di un tappeto che all’improvviso stonava nella stanza anche per Olivia, anche per lei, per cui tutto un tempo era stato insignificante, e di un giuramento e di un lungo sonno, ma mai potrà sapere da cosa, quella notte, si è salvato. Lorenzo come Bastian, il bambino nascosto nella soffitta della scuola che non saprà mai come ha potuto salvare la principessa dandole un nome, come ha potuto tenere per un attimo tutto il suo regno tra le mani.
Noi d’altra parte non sapremo niente di Olivia: la vediamo alla fine allontanarsi, la osserviamo dall’alto finché esce fuori campo, consegnata all’indifferenza; la stessa indifferenza che l’ha fatta diventare 'cattiva' e 'vampira'; la stessa indifferenza che un tempo per lei era ricerca estetica, annullamento del punto di vista nelle fotografie di corpi che diventano tutt’uno con i muri, inosservati e inosservanti, mentre la realtà diventa una per tutti, senza desiderio, senza distinzioni.
Sarebbe doveroso condannare la superficialità dell'ennesima associazione psicologista tra fuga dal dolore affettivo e tossicodipendenza, se non fosse che questo tema è epurato nel film da qualsiasi gravità esistenziale o sociale e funziona solo come evento di rottura e di intervento del reale o come espediente estetico, che per Bertolucci sembra potentemente la stessa cosa. In questa poetica dello ‘stupefacente’ come tentativo paradossale di recuperare un’innocenza che diventa invece alienazione violenta, estraneazione che annienta e fa guardare il nulla dal nulla, sembra esserci anche un rimando meta-filmico al cinema stesso. Se su Olivia alla fine dilegua il punto di vista è forse per dirci, con tragico sollievo, che la sua strada non ci riguarda, che il suo progetto non è interessante, perché lo sguardo autentico non può essere un recupero purista né una fantasia di annullamento né lo strumento per essere compresi  e nascondersi nello sguardo altrui, rimanendo ''narcisi'. D’altra parte, abbiamo la percezione che Lorenzo, il personaggio che si cerca di far parlare con la propria voce, ritirandosi eppure quasi delegando a lui la possibilità di ‘invenzione’ di un ancora, di un altrove, sia la testimonianza della sincera spudoratezza ma anche della torbida inquietudine di un regista per cui la vita e il cinema non si distinguono, così come l'innocenza dello sguardo non può che essere un espediente estetico. Per questo forse lui stesso sembra spesso il ‘vampiro’ dei suoi interpreti, e la maturità consapevole del suo cinema sembra scontrarsi  e lottare con il suo isolamento personale quasi come il bisogno dello scienziato di meravigliarsi ancora si scontra con gli esperimenti rischiosi che mette in atto per istituire quella meraviglia. Questa lotta racchiude in sé tutta la sincerità e l’innocente crudeltà dei film di Bertolucci, che si racconta a noi come un sognatore, eppure ci abbandona al senso di un rischio totale e sempre incombente, che però su di lui sembra non avere presa, oppure essere da lui segretamente desiderato e sempre, ogni volta, dissimulato.
Io e te racconta la dialettica di questa ambiguità dividendola tra i due personaggi, ma lascia aperta una chance per entrambi: si ferma un attimo prima della delusione finale di The Dreamers, si ferma molto prima di Ultimo tango. Ferma Lorenzo in un fotogramma che racconta l’inizio di una storia qualsiasi, prima di qualsiasi ritorno, eppure ultima utopia della vita e forse del cinema. Insieme.