TRAMA
Luglio 1945. Alle soglie della Conferenza di Potsdam – in cui Stalin, Truman e Churchill decideranno le sorti dell’Europa postbellica – il capitano Jacob Geismer viene inviato a Berlino come corrispondente di guerra da un giornale americano. “Casualmente” l’autista che gli viene assegnato è l’attuale compagno della sua ex cronista-amante Lena, di cui Jacob è ancora infatuato: l’incontro tra i due sarà inevitabile. Ma Lena nasconde un segreto, anzi più segreti.
RECENSIONI
'Bei vecchi tempi, quando sapevi che il nemico era quello che ti sparava contro': queste parole, pronunciate dal capitano Geismer (un George Clooney ammaccato e sornione quanto basta) al colonnello Muller (Beau Bridges), sintetizzano piuttosto bene il senso di The Good German (ineffabilmente tradotto in italiano con Intrigo a Berlino), film che passerebbe indenne persino all'esame di una commissione di puntigliosissimi filologi cinematografici. Le atmosfere ricreate da Soderbergh - come al solito regista, direttore della fotografia e montatore - sono difatti quelle dei gloriosi noir/spy story anni Quaranta, su tutti Casablanca (1943) e Il terzo Uomo (1949) naturalmente. L'omonimo romanzo di Joseph Kanon non è altro che il pretesto per imbastire una preziosa e sorvegliatissima rievocazione cinéphile in cui le suggestioni cinematografiche sciorinate si amalgamano con inaudita naturalezza alle bellissime e terrribili immagini d'archivio (pare girate nientepopodimeno che da Billy Wilder e William Wyler). Di Soderbergh c'è da fidarsi poco, lo sanno anche le poltroncine, sicché tutto questo imperioso classicheggiare suona immediatamente compiaciuto e compiacente. Eppure col passare dei minuti, almeno secondo chi scrive, la vicenda del capitano Geismer e della algida, austera e available Lena (Cate Blanchett, un'antologia di sfumature) acquisisce progressivamente tensione drammatica e lievito sentimentale, traendo profitto dalla ridondanza dei valori luministici e figurativi ultraclassici. Anzi, uno sguardo meno sbrigativo riesce anche a cogliere significativi fattori di dislocazione estetica in The Good German, nel senso che i principi narrativi e i postulati ideologici provenienti dai modelli di riferimento sono sottoposti a un'interessante torsione linguistica: anziché disegnare percorsi di attraversamento univoco del film, la voice over in rigorosa prima persona si triplica inaspettatamente, passando dal personaggio di Tully (Tobey Maguire) a quello di Geismer, per finire a quello di Lena, rifiutandosi di guidare per mano lo spettatore e stabilire gerarchie di valore tra le varie prospettive. E, soprattutto, questo nuovo linguaggio applicato a una materia canonica sposta in avanti il baricentro etico del film, passando dal concetto tutto sommato classico di ambiguità (dove alla fine della storia si era portati a sfumare il manicheismo iniziale) a quello ben più angosciante e attuale di amoralità (dove da sfumare non è rimasto più niente). La riscrittura dei modelli aurei del genere noir/spionistico permette insomma a Soderbergh/Clooney (la celebre Section Eight) di lavorare il cuore dellimmaginario cinematografico statunitense, mettendo impietosamente a nudo la deriva etica verificatasi da Casablanca a oggi e individuandone i prodromi nell'avidità e nell'ipocrisia di un espansionismo gabellato per difesa della libertà (esemplare in questo senso il comunicato radio del presidente Truman, che proclama la partecipazione assolutamente disinteressata degli USA alla Conferenza di Potsdam, mentre il film non ha fatto altro che mostrarci il contrario). Da molti scambiato per sterile acribia, lo scrupolo filologico (le immagini d'archivio, il bianco e nero contrastato, il formato 1.66:1, gli obiettivi d'epoca, la recitazione impostata e il commento musicale ortodosso) non solo amplifica drammaticamente le vicende messe in scena, ma costituisce il trasparente ideale sul quale proiettare le macerie morali della contemporaneità, emblematicamente rappresentate dal brutale omicidio del 'bravo tedesco' da parte di Gunther, freddo e imperturbabile boia al servizio dei vincitori, di qualunque nazionalità essi siano. 'Bei vecchi tempi'.