TRAMA
La piccola Riley nasce con un solo sentimento: la gioia. Ma la pacchia dura 33 secondi.
RECENSIONI
Pete Docter, dopo Monster’s & Co e Up, si conferma, insieme all’Andrew Stanton di Finding Nemo (per chi scrive, vetta insuperata), una punta di diamante tra gli autori Pixar, in grado di guadagnarsi la maiuscola Autoriale. In particolare, nei suoi precedenti lavori era stato in grado di affrontare l’Emotività di petto, senza remore e di confezionare sequenze purovisibiliste, lezioni magistrali di racconto per immagini (la vita dei coniugi Fredricksen) di piena dignità autonoma, benché perfettamente integrate nella struttura del film. Caratteristiche che tornano, amplificate e perfezionate, in Inside Out. Così come i peccati veniali, se vogliamo fisiologici e sicuramente perdonabili, come un character design (grafico) altalenante e sezioni centrali che pagano il dazio alle necessità action finendo per girare un po’ a vuoto.Dopo cinque anni - e tre film - interlocutori, insomma, la Pixar con Docter torna a fare la voce grossa, rimarcando lo stacco tra i suoi lungometraggi animati e quelli altr(u)i. Con la parziale eccezione della Dreamworks di Dragon Trainer, infatti, nessuno sembra assumersi la coraggiosa responsabilità dell'ambizione e del rischio. E Inside Out è un film coraggioso, ambizioso e rischioso in egual misura. Potremmo individuare il suo antenato spirituale, oltre che nei citati precedenti del regista, in quel Toy Story 3 che cinematografava un'amara ma serena riflessione sullo scorrere del Tutto e sul doloroso ma inevitabile passaggio dall'infanzia alla pubertà. Con la diegesi che si adagiava sull'anagrafe spettatoriale e i quindici anni coperti dalla trilogia che chiudevano una saga cinematografica mentre raccontavano la vita di chi, con quella saga, era letteralmente cresciuto, parallelamente al (non più) piccolo Andy.Qui si punta ancora più in alto, perché la matura malinconia di Andy, che accetta e metabolizza il proprio cambiamento, viene virata alla tristezza vera e propria di Riley, che piange la perdita della propria ingenua felicità. Gli spettatori, infatti, adulti e bambini, sono chiamati a vivere sulla propria pelle (non solo) di spettatori la necessità di affrontarla, la tristezza, accettarla e talvolta invocarla, per riuscire ad affrontare la vita, capirla e, per così dire, godersela nella sua pienezza. Il risultato è che Inside Out risulta un film fondamentalmente triste, che parla della tristezza come valore (e del valore della tristezza), realizzando una perfetta adesione/sovrapposizione tra medium e messaggio, dato che è solo – si fa per capirsi – intristendosi che è possibile affrontare il film, capirlo e goderselo.Ovviamente non mancano i momenti divertenti, lo humour intelligente: i battibecchi a distanza tra emozioni/sentimenti maschili e femminili ridanno dignità al Comico basato sugli stereotipi di genere. E ci sono altre chicche assolute, in cui la Disney / (tramite la) Pixar sembra capace di recuperare la voglia di sperimentare e di azzardare concettualizzazioni prossime all’avanguardia: la sequenza in cui viene data consistenza visiva alla progressiva astrazione del pensiero concreto è un nuovo, (piccolo) film nel film che rimarrà, intrisa com’è di inventiva citazionista e degna erede della sua omologa in Fantasia (1940), la famosa rappresentazione tra il figurativo e l’astratto della Toccata e fuga in re minore di Bach. E non mancano altri spunti di riflessione, perfettamente incastonati nella narrazione: l’affastellarsi e il complicarsi dei sentimenti, il ruolo degli amici immaginari, l’apatia adolescenziale, l’importanza dei ricordi. Un’impostazione pedagogico/didascalica connaturata al Genere Animazione che però, qui, raggiunge un probabile zenit trans-generazionale e, soprattutto, osa senza riserve e ripensamenti.Se infatti è vero che trattare temi alti e scomodi non è una novità nell'universo Pixar, popolato com'è da Paura, orfani, portatori di handicap, sterilità, anziani abbandonati a se stessi e mali incurabili, è altrettanto innegabile che stavolta la posizione è tenuta fino alla fine, in maniera totalizzante, senza deviazioni, virate e alleggerimenti postumi, come avveniva in passato. Ed è proprio qui che risiedono il coraggio e la bellezza di Inside Out: nel suo essere fino in fondo quello che è, nel suo chiedere (anche) ai suoi piccoli spettatori di accantonare spensieratezza e risate cartoonesche per accettare le lacrime, senza che una risata finale le seppellisca.
Introdotto da un corto non all'altezza dello standard Pixar, ma perfettamente funzionale alla virata verso il bacino di pubblico orientale, Inside out arriva gravato dal peso di recensioni che già mesi fa annunciavano il capolavoro. Peso che si somma alla grande responsabilità di portare addosso il marchio più prestigioso dell'animazione e doversi confrontare con predecessori che impongono genialità e poesia, non buoni cartoni come tanti altri.
La prima parte della pellicola è però appesantita da passaggi troppo meccanici per la necessità di spiegare di cosa si sta parlando e soprattutto come funziona il film.
Da questo momento in poi lo spettatore si trova spesso incerto se gridare all'idea geniale o sentirsi insoddisfatto per le ingenuità da manuale di Psicologia generale 1 della sceneggiatura.
D'altra parte è molto ben pensato e romantico il racconto dei pezzi di memoria buttati via per sempre nella discarica della mente. Tra questi, l'amico immaginario è l'elemento migliore, solidamente costruito di tenerezza infantile e simpatia e poi sacrificato come le leggi della vita vogliono in un passaggio da groppo in gola tipico delle migliori prove Pixar (e che ovviamente richiama molto da vicino l'insuperato Toy story 3). E il paese dell'immaginario, come pure il tunnel del pensiero astratto, sono effettivamente notevoli per inventiva ed aderenza simbolica alla realtà.
In termini di entusiasmo del pubblico, i momenti di gloria del film sono prevedibilmente quelli che mostrano la mente di altri personaggi, a cominciare da madre e padre, in un gioco divertente di stereotipi sulle dinamiche uomo-donna, fino ad insegnanti, adolescenti, cani e gatti.
L'ironia la fa da padrona, come sempre, l'azione rivendica i suoi spazi in una serie di sequenze rutilanti, ma al momento di stringere i sentimenti sono il motore di tutto. In questo caso, materialmente.
Il film c'è, la perfezione forse no.