TRAMA
Dopo quarant’anni di matrimonio, Alfie abbandona la moglie, Helena. Quest’ultima tenta prima il suicidio, poi si rivolge ad una veggente…
RECENSIONI
Anche se dimenticassimo, o facessimo finta di dimenticare, il nome e le opere pregresse del suo Autore, non potremmo esimerci dal considerare l’oggetto You Will Meet a Tall Dark Stranger, a seconda dei punti di vista, un omaggio, tenero e inutile, o un plagio, spudorato e malriuscito, delle migliori opere del regista newyorkese Woody Allen. Trattandosi di un film di Allen, il tentativo di abolire il principio di riconoscibilità autoriale di un’opera a favore dell’unicità e dell’autosufficienza del testo fallisce di conseguenza miseramente. Di fronte a un tale lavoro di riciclaggio di situazioni e battute e a un’aridità creativa imbarazzante, in cui le novità si limitano a nozionismi topografici (si scrive Londra, si legge New York), o a intellettualizzazioni, neanche tanto sottili, di topoi sulla vecchiaia d’inizio millennio (Viagra e compagnia rivitalizzando), non possiamo che attestare un dato di fatto inequivocabile: gli oggetti e i soggetti che popolano il recente cinema di Allen odorano sempre più di maglioni di lana a collo alto e di gonne dismesse, riesumate dalla maleodorante cassapanca del nonno. Ancor più di Whatever Works, dove Larry Davis si “allennizzava” alla maniera del Branagh di Celebrity, You Will Meet a Tall Dark Stranger gira e rigira attorno all’ombelico del suo autore e alimenta la rendita, oramai internazionale, che ne deriva, tra figure di stile stantie, escamotage narrativi abusati (la veggente che attiva il racconto), una sciattezza generica a livello di messa in scena che le eleganti e stucchevoli cromature pastello di Vilmos Zsigmond cercano inutilmente di occultare. Se quasi azzecca la captazione del dolce e tragico obnubilamento di Helena, cui spettano gli unici momenti non disprezzabili del film, Allen fallisce clamorosamente, e paradossalmente, nel tratteggiare la tarda e patetica esplosione virile di Alfie (Anthony Hopkins), aneddotica e priva d’interesse.
Dal canto loro, i battibecchi sentimental-culturali, da scantinati di galleria d’arte chic, tra Sally (Naomi Watts) e Greg (Antonio Banderas) e la descrizione del fallimento esistenziale e professionale dello scrittore Roy (Josh Brolin), risultano tristemente consueti e scontati. Il problema di fondo, quindi, più che nello spudorato e chissà quanto cosciente riciclaggio (alla fine legittimo, molti artisti contemporanei campano con variazioni sul tema il più delle volte vacue), risiede nell’assemblaggio e nella qualità dei singoli “pezzi”. In definitiva, You Will Meet a Tall Dark Stranger sta alla filmografia di Allen come il mostro di Frankenstein al genere umano. Come quest’ultimo, suscita al tempo stesso tenerezza e un certo, innegabile fastidio.
L'insolito happy end su cui si era chiuso il precedente Basta che funzioni nel giro di un anno mostra tutta la sua fragilità. I meccanismi esistenziali anche se ben oliati rivelano presto a uno sguardo lucidamente nichilista la loro tragica insensatezza, il loro essere in ultima analisi sempre zimbelli del caso. Meglio essere stolti allora, affidarsi ciecamente a fatue illusioni e rinunciare alla lucidità portatrice di tanto dolore? Domanda oziosa probabilmente, attorno alla quale è allora meglio oziare con apparente leggerezza, giocando anche al risparmio, perché no, per guadagnar tempo. Perché la prolificità di Allen, per molti sperperatrice del suo buon nome (e dei capolavori passati) e indice paradossale di una mancanza d'ispirazione cronica, altro non è che questo, una lotta contro il tempo, un giro di minuetto in più per ingannare la signora con la falce (figura adombrata anche nel titolo originale, allusione che la traduzione italiana provvede a cancellare).
Da poco settantacinquenne, Allen gira ormai con il distacco di chi non deve e soprattutto non vuole dimostrare più niente, neanche a se stesso, se non raccontare e raccontarsi ununica storia per non morire, quasi una versione senile, maschile e metropolitana di Sheherazade. Ogni film diventa così, più che un racconto ex novo che integra il precedente, unarticolata appendice, una nota a margine, una variazione tematica ad arricchire una combinatoria di temi e personaggi e situazioni ormai consolidata ma ancora disponibile a risistemazioni e glosse, titoli che s'incatenano a titoli senza pause, senza esitazioni, in un romanzo che non vuole vedere la parola 'fine'. Chiamiamolo anche 'riciclo' o 'ricalco', se proprio non se ne può fare a meno, ma non neghiamogli dignità e senso. Anche perché l'ultima produzione di Woody Allen dal punto di vista della pura messa in scena è in realtà un po' più interessante di come generalmente la si dipinge, nel contesto di una ricezione critica che almeno in Italia [*] oscilla tra il plauso di default di certa stampa quotidianista che fa il conto delle battute spendibili e degli aforismi riutilizzabili (pratica insopportabile da sempre della quale Allen è vittima eccellente) sciorinando termini quali 'geniale', 'brillante' e compagnia bella, e il disinteresse della critica diciamo così più militante (sempre andando per generalizzazioni, quella delle riviste specializzate e on-line) chiusa a riccio nel refrain 'fa sempre lo stesso film', formula ben più noiosa della noia che vorrebbe stigmatizzare, e arroccata in una nostalgia del bel tempo alleniano che fu che le impedisce di analizzare il tempo alleniano presente con spirito più neutrale, non perdonando al regista newyorchese quello che magari loda in altri (per fare un nome, tra l'altro amatissimo dal sottoscritto, il compianto Chabrol). Certo, il disamore nei confronti di Allen è anche 'colpa' dell'autore stesso, probabile effetto di saturazione da iperproduttività giocata sostanzialmente sugli stessi tasti e su un pessimismo sincero ma che spesso s'incarta nella cristallizzazione letteraria (l'iniziale citazione shakespeariana di quest'ultimo film ne è un segnale). Ad ogni modo la pigrizia con la quale, secondo chi scrive, ci si è accostati agli ultimi film di Allen ha portato ad ignorarne (o considerare con manierata sufficienza) precise scelte di stile e reimpostazioni di sguardo, sottovalutando ad esempio il rovesciamento comico di Match Point ad opera del successivo Scoop (che è l'ultimo vero film comico di Allen) nel quale la forma comica celava una sostanza forse perfino più amara, o il montaggio brutale e beckettiano dell'illividita (e sminuita) opera buffa Sogni e delitti, il maurivaudage à la Rohmer su temi jamesiani condito di insolite dissolvenze e sfocature di Vicky Cristina Barcelona, la studiata declinazione degli spazi da sit-com nel ritorno a New York di Basta che funzioni.
Ritornando a quest'ultimo film, il quarto girato da Allen nella capitale inglese, si può da subito notare come l'uso di Londra risponda ancora a una volta, in modo certo discreto ma preciso, ad esigenze estetico-narrative: un cielo bianco perla, una luce neutra e distaccata ed interni confortevoli, quasi rassicuranti, tra l'agio high tech, la galleria d'arte e il nido bohémien, in cui la fotografia di Vilmos Zsigmond può dare sfogo anche a caldi cromatismi. I personaggi di Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni si muovono in una Londra teatrale e sotto vetro, impassibile ma comoda, illusione urbana che fa da sfondo a quelle esistenzial-amorose di cui la narrazione è intessuta (tra le altre cose, il moderno appartamento con vista sul Tamigi di Alfie/Hopkins, oltre a ricordare quello quasi analogo di Chris in Match Point, nella sua elegante nudità, e appaiata all'abbigliamento dell'uomo prevalentemente giocato su tonalità chiare, sembra echeggiare il desiderio di una disperata rinascita o seconda giovinezza). Ronde sbilenca di uomini e donne che non s'incontrano mai veramente, dediti solo a se stessi e ai propri sfocati desideri in un bon ton di apparenze fragilissimo (l'infrazione più gustosa sarà la camicia aperta e la pancia esposta per strada di Roy), alla ricerca di una seconda occasione (mentre viene crudelmente e subliminalmente suggerito che forse non ne esiste neanche una prima, come nella sequenza in cui Roy appena trasferitosi da Dia vede alla finestra la moglie, replica di un momento antecedente che aveva dato il via alla sua nuova storia, e abbassa quasi stizzito la tendina), Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni per rimanere al gioco dei rimandi all'interno dell'universo filmico alleniano sembra un Mariti e mogli passato al setaccio del finale di Ombre e nebbia e messo in scena con sorridente, pacata e a tratti un po' deconcentrata gravità.
Allen non sembra aver tanta voglia di ridere o far ridere e alcune sequenze rimangono interdette tra la gag inesplosa e il dramma incipiente (ad esempio quando Sally, la sempre ottima Naomi Watts, chiede soldi alla madre e alla risposta ostinatamente negativa di questa dettata dalle 'direttive' della chiaroveggente la figlia esplode urlando contro la sua stupidità credulona); l'unico personaggio comico, al confine con la macchietta, quello di Charmaine, non è assimilabile alla prostituta dal cuor d'oro Mira Sorvino de La dea dell'amore né a quella attenta e perspicace di Harry a pezzi né all'oca totale Jennifer Tilly di Pallottole su Broadway, partecipando anch'essa in prima persona e senza redenzione alcuna al clima generale di menzogna e di inganno. Il pessimismo materialista di Allen porta i suoi personaggi a sbattere il muso contro la concretezza di oggetti che smentiscono le proprie illusioni in una sorta di feticismo del disinganno: una pillola blu (e sul finale il test di paternità), l'alcool, un paio di orecchini, un manoscritto rubato. A godere dell'happy end, nella sospensione dubbiosa e ormai scevra di illusioni di tutte le storie narrate, sarà solo Helena, disconnessa dal reale, immersa in una felicità (o parvenza di felicità) stolida e farneticante accanto all'uomo dei sogni che non è né alto né bruno (la sua frequentazione della maga Cristal, per quanto ne sappiamo noi spettatori, potrebbe essersi persino interrotta dopo le prime sedute ed esser proseguita in una dimensione del tutto immaginaria, formulando la donna stessa le presunte previsioni della sensitiva). L'ultima inquadratura, all'insegna di un romanticismo senile e pateticamente idilliaco, chiude un film in cui Allen sembra sì capire l'agire dei suoi personaggi ma mai amarli davvero. Nella sfera di Cristal-Woody non si intravede alcun futuro possibile, solo un presente vacuo e incerto 'che non significa nulla'.
Ecco, in questo narrare avvitato su se stesso, in questo giocare anche al ribasso a volte gravato di stanchezze (l'uso poco vivace della voce fuori campo, distante dall'uso sottile che se n'era fatto ad esempio in Vicky Cristina Barcelona, la mancanza di una dose di incisività maggiore nella scrittura dei dialoghi) - mi sia concesso l'uso della prima persona - ravviso sempre piccole preziosità (il volto di Gemma Jones, terreno sul quale si gioca tutta la sostanza del film, perlustrato da primi piani quasi bergmaniani; il bel campo-controcampo che trasforma la confessione amorosa di Sally al gallerista Antonio Banderas in due soliloqui; l'ultima inquadratura su Roy/Josh Brolin che vede il personaggio dello scrittore avanzare dal fondo della stanza verso la macchina da presa e sparire di scena dopo essersi trasformato in cupo primo piano), interessanti scarti di tono che perseverano nell'arricchire la (tragi)comédie humaine dell'autore, una "medietà" cristallina nello stile e nell'intento in cui la poetica sarà anche piegata a mestiere ma un mestiere che continua nonostante tutto a sembrarmi balsamico.
[*] Diversamente, la critica francese si mostra da sempre più attenta e meno superficiale nell'accostarsi anche ad opere di autori scontati e così ha fatto con Allen mai prendendolo sotto gamba, anche in questi ultimi anni.
Girato con la mano sinistra e un piede nella fossa, Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni è uno stanco bigino alleniano, cosa che non sarà interessante continuare ad affermare, ma da cui è impossibile prescindere. Temi ricorsivi, figure fotocopia, fantasmi di opere che hanno segnato decenni di storia del cinema si presentano annualmente in vesti gradualmente usurate, sempre simili a se stesse, segni (secondo il punto di vista) di una pervicace politica autoriale (quant)o di un riciclo sistematico autoreferenziale. Quel che cambia, a scrutare questi pattern umani che costituiscono un incestuoso microcosmo, è lo sguardo di Allen. Quella del suo cinema è una parabola, un viaggio di andata e ritorno. Il principio è l'Allen comico, che dietro il fuoco di fila di gag riduceva qualsiasi linguaggio e retorica (cinematografica, massmediologica, ideologica, filosofica) al paradosso, nella costante messa in assurdo di ogni convenzione, nell'irrisione nel nonsense dei massimi sistemi, nell'ebraica accettazione del Mistero. L'apice parte da Io e Annie: il suo cinema matura, immerge la furia nichilista nella tragedia ridicola quotidiana, si fa autobiografico, personale per farsi universale, per parlare (da par suo) il linguaggio della banalità, per rappresentarla in tutta la sua irriducibile complessità, nei suoi dilemmi, nei suoi dissidi, nella sua tenera frustrante mediocrità. Il ritorno è una regressione, la senile coatta volontà di mettersi nuovamente al di sopra delle cose della vita: i personaggi dell'ultimo Allen sono ominidi stereotipati, di consapevole vacuità, segni dell'accettazione sdegnata della decadenza vista da un uomo alla fine dei suoi giorni.
Come negli esordi la deflagrazione di falsi miti è il didascalico fine, ma l'Allen dei giorni nostri non conosce militanza, non agisce cinematograficamente sul suo tempo, sull'articolarsi della lingua dell'oggi, non lavora sull'immaginario contemporaneo. Non è un caso che la maggior parte degli eventi, nei suoi ultimi film, accada fuori campo, altrove, non è un caso che non ci siano scene madri, ma solo fiumi di parole già sentite, ritornelli sulla pneumatica mancanza di senso, pensieri riferiti a qualcosa, mai quel qualcosa. Il presente, nel cinema di Allen, è soppresso. Rimangono il desiderio proiettato verso il futuro e le conseguenze della disattesa: Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni è il titolo elementarmente antifrastico di un film che gioca a destare nel realismo i sogni (classicamente cinematografici) dei suoi protagonisti, in un tripudio della disillusione e nell'elogio moralistico dell'autismo come metodo di sopravvivvenza nella (/ alla) vita. Discorso ovviamente condivisibile, condiviso da una nutrita tradizione di cineasti di formazione ebraica (i Coen, su tutti), ma che cinematograficamente si esprime in Allen in inerti opere a tesi sul Nulla, girate con rara e innegabile sciatteria, animate da personaggi privi di spessore, coacervi di luoghi comuni di riporto senza la leggiadria devastante della gioventù, ma con il peso morale del senile bergmanismo d'accatto. La fauna alleniana si limita oramai a simulare la vita e il cinema del suo autore, stuolo di morti viventi che abitano pagine già sfogliate, sintomi di una visione di mondo determinista che si cristallizza, forse inevitabilmente, in film funerei non tanto per gli alterni sviluppi narrativi, ma quanto per la sensazione tangibile e glaciale di decadenza autoriale inesorabile: non c'è più luce nel cinema di Woody Allen, tutto è già avvenuto, già accaduto, già scritto, già visto, ogni film è maniera manierata, ogni personaggio volgare caricatura di (precedenti) se stesso, ogni volta indirizzato verso abissi più profondi di triste e sconsolata pochezza, figurina sempre più esile, monolitica.
Lo sguardo freddo e trascurato di Allen ha la consistenza del lamento rassegnato della vecchiaia, sicuramente, ma nell'ardito parallelo critico filmografia/vita manifesta anche il rincoglionimento della ripetizione, l'incapacità di relazionarsi al presente se non tramite mitologie riciclate, la fierezza indisponente di chi plasma il mondo (il cinema) unicamente secondo proprie e ampiamente ribadite convenzioni, la frustrazione di chi non sa più inventare forme ma si rifiugia recidivo in aneddoti abusati.
Perché è questo il punto: Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni potrà piacere a novelli spettatori abituati ai tristi (ne)fasti della commedia contemporanea, potrà sollazzare il critico e l'esegeta interessati a verificare il polso di una poetica che (lo ribadiamo) ha fatto la storia del cinema, attività teorica doverosa ma che non può deformare il giudizio su un film eufemisticamente minore, sfilacciato e incontestabilmente mediocre in ogni suo comparto, un'innegabile degenerazione involuta, un mantra esausto e deteriore. Una nenia cocciuta ma via via più flebile, come se Allen altro non facesse che tramandarsi ai (propri) postumi.