TRAMA
Nella provincia danese si incontrano due adolescenti, Elias e Christian, segnati dalle difficoltà delle rispettive famiglie. La loro amicizia è un’iniziazione alla violenza.
RECENSIONI
La regista danese Susanne Bier ha avuto un percorso cinematografico singolare e caratterizzante: non avendo mai girato ufficialmente un “film Dogma”, ha comunque adottato le regole dogmatiche nei primi lavori, culminanti in Open Hearts (2002), ad oggi la prova più convincente. Si è poi collocata nell'incerta metà strada di Brødre (in italiano Non desiderare la donna d’altri, 2004) riscuotendo l’applauso unanime dalla platea dei festival, tanto da indurre Jim Sheridan allo scadente remake Brothers (2009). Dopo il matrimonio (2006) è il film della svolta: Bier lascia il Dogma, movimento sciolto e consegnato alla critica, e si avvia a una poetica personale, più o meno apprezzabile, che conferma e sviluppa nel successivo The Things We Lost in the Fire (bellissimo titolo – a mio avviso - banalizzato con Noi due sconosciuti, 2007), girato negli Usa. Lo stile trasformato, che si riferisce alle ultime due pellicole, ha origine dai lavori precedenti: la regista indaga sempre i meccanismi del Film Drammatico, ma lo esaspera e rende sfacciato, quasi insopportabile. Dove prima c’era il Dogma a valorizzare la materia trattata, moltiplicandone i punti di interesse (naturalmente l’uso della macchina a mano, ma non solo), adesso la Bier ricorre a una serie di trovate esplicite che non temono il ricatto: recitazione “spremuta” dagli attori senza evitare le lacrime, primi piani insistiti e privi di pudore sul dolore, zoomate per dettagli significativi, dialoghi palesi e montaggio alternato a costruire un significato che si forma per accostamento. Sullo sfondo, dalla splendida gratuità dogmatica, si passa a insinuare temi e argomenti fra le righe del testo, basti pensare all’ombra della Guerra e ricaduta su legami famigliari evocata in Brødre. In generale nella “nuova Bier” lo sguardo è sempre attivo sulla narrazione, mai passivo: il dramma si vede tutto, è sovraccarico, non ci sono omissioni. Naturale, dunque, che oggi la proposta cinematografica della danese imponga un prendere/lasciare strettamente personale, perfino intimo, in relazione alla propria capacità e disponibilità ad accettare il dramma, digerire il melò spinto all’estremo, sopportare la tesi che viene sviluppata, non per enunciazione ma sempre attraverso la narrazione (gliene rendiamo atto).
Premio della giuria e del pubblico al quinto festival di Roma, Hævnen (vendetta) è il film del ritorno in Danimarca. Elias (Markus Rygaard) è un adolescente che deve affrontare la separazione dei genitori; di rimbalzo, a trasferire la sofferenza proprio sul piano fisico, subisce i tormenti dei bulli nella sua nuova scuola. Remissivo e incline alla sottomissione, la visione cambia con l’incontro con Christian (William Jøhnk Nielsen con sguardo da horror); costui al contrario esprime la convinzione della violenza necessaria a scopo difensivo che però, ovviamente, può sempre degenerare e portare all’esplosione (che avviene a livello letterale). La parabola delle due figure si alterna all’esperienza dei genitori: uno alle prese con la separazione, l’altro con la tragica scomparsa della moglie; madri che svaniscono o si allontanano dunque, mentre il padre di Elias, Anton (Mikael Persbrandt), opera come medico in un campo profughi africano, confrontandosi con la violenza quotidiana e sistematica. Su tutto, come tema complessivo di fondo, il film riflette sul Terrorismo: il rapporto Elias/Christian si risolve nella preparazione di un attentato. Con i temi sul piatto (e l’automatica – ma legittima – ambizione di questi), suona subito evidente il rischio assunto dalla regista. Finora Bier aveva sottolineato la capacità di innescare le storie da archetipi risaputi (per esempio la microcriminalità in Noi due sconosciuti), ma poi prendere una strada propria che lascia il sentiero di partenza e si interessa solo al Dramma, ci immerge tutto il film e lo sviscera in modo evidente, senza pudore e senza lanciare messaggi. D’altronde è sempre emersa la vena negativa che non si stempera mai totalmente nel lieto fine (“La Danimarca non è così perfetta”, afferma la cineasta) e l’estremismo melodrammatico che sfida l’esagerazione, la cerca come cifra distintiva. Nel nostro caso, però, non avviene la liberazione dal luogo comune, lo stereotipo resta tale: nell’alternanza delle due parti, se quella europea risulta più strutturata, il frammento africano suona oggettivamente irricevibile, tutto ripiegato nell’intenzione dimostrativa e nelle figure da macchietta (incredibile quella del capo guerrigliero). La parte principale danese evidenzia una maggiore complessità nella costruzione del legame tra i ragazzi, che odora di college movie virato al nero e segnato dal bullismo, ma si affida comunque a simboli palesi (il coltello come pegno di amicizia) e scivola nei buchi della logica (l’improvvisa adesione di Elias al piano criminale). Il finale arriva come colpo di grazia: prolisso e apertamente significativo, questo si impegna ad appianare i nodi tra i personaggi attraverso una lunga serie di confronti a due. Teoricamente intensi, in realtà accorati e inverosimili, nel tripudio di primi piani e campi/controcampi, sono tutti “sottofinali” con lo scopo di esplicitare, che fanno capitolare anche gli ottimi attori. Parabola sulla Violenza e le sue modalità di infiltrazione nella società, In un mondo migliore non esagera “à la Bier” ma resta una semplice dimostrazione, quindi non colpisce: il melò non trabocca, il dramma non fa male.
Premio Oscar 2011 come migliore film straniero.

Susanne Bier e lo sceneggiatore Anders Thomas Jensen (regista del notevole Le Mele di Adamo) affrontano, in senso lato, il tema della violenza, ascrivendolo nel cinema morale e intimista dell’autrice, che solleva quesiti etici e osserva spesso la vita all’ombra della morte. Una violenza che nasce da quest’ultima, dal dolore, dall’esibizione di forza fisica che sostituisce il dialogo, dall’ingiustizia del Potere (in Africa) o dalla necessità. Il cinema della Bier promette sempre più spessore ed ingredienti originali di quelli che mette realmente in campo: rischia di fermarsi all’esercizio di scrittura da manuale dove, con approccio corale, dipanare una serie di eventi significativi ma privi di un sottotesto veramente provocatorio o sorprendente. In un certo senso, capito il gioco di questo compitino, il suo cinema diventa più moralista che morale, ma in questo caso tesse le fila delle sue pedine con abilità, appassionando (o compiacendo) nel modo in cui dà vita ai personaggi o dirige le recitazioni, e le si perdona qualche archetipo troppo emblematico perché sia del tutto credibile (vedi il protagonista ghandiano, dedito alla non-violenza). Chi continua a sostenere che i suoi sono mélo raggelati, non l’ha proprio capita: Susanne Bier conta sul coinvolgimento drammatico, sul pathos, sul conflitto psicologico fra i suoi caratteri, è la vera forza del suo cinema.
