
TRAMA
Stu Shepard è un PR esagitato e di parlantina rapida, sposato, ogni giorno entra in una cabina telefonica all’angolo tra la 45a e l’8a a NY City, per chiamare un’aspirante attrice da concupire. Il telefono suona e, alzato il ricevitore, Stu si trova a fronteggiare un pazzo che lo tiene di mira e lo vorrebbe redento dalle sue bassezze.
RECENSIONI
La voce del narratore introduce all'universo della telefonia niuiorchese, informa su quanti siano gli apparecchi pubblici, quale l'utenza, per arrivare ad una cabina (phone booth) che sta per essere rimossa, non prima però d'aver vissuto un giorno di gloria.
Lo sceneggiatore Larry Cohen aveva in mente l'idea d'un film interamente risolto dentro una cabina telefonica fin dagli anni '70, proposta pure ad Hitchcock, ai tempi messa in un cantuccio per difficoltà realizzative. Sono passati sei lustri abbondanti e la sceneggiatura vede la luce (una prima stesura può essere letta qui) ed il progetto finisce a Joel Schumacher, fabbricante di divi e divertimenti sciapi o lacrimosi (TIGERLAND, 2000 vorrebbe salvarsi dalla definizione), di buon successo ma sempre, inguaribilmente tarati sotto più punti di vista.
Dodici giorni di riprese, il primo set, a New York presto abbandonato per il freddo, la troupe trasferita a L.A.; nel 2002 la distribuzione viene bloccata per le nefaste prodezze del cecchino di Washington, nel frattempo Colin Farrel (la parte era stata offerta pure a Jim Carrey) è schizzato nella gerarchia delle star a velocità spropositata (nel 2004 sarà Alessandro di Macedonia, il Grande, per Oliver Stone) e quindi nonostante i vorticosi tempi di guerra "In linea con l'assassino" vede il buio delle sale.
I dati di fatto sono solo fumo negli occhi, l'impresa tecnica parrebbe - potrebbe essere - ardita ed affascinante, dato soprattutto un giovin attore che ha grandi potenzialità e la location ardita, il tutto stretto nella durata, 80 pagine di sceneggiatura, ottanta minuti, da manuale. Schumacher però ci mette tutta la sua insipienza e, nonostante un montaggio semplice ed efficace, il risultato non ha polso, la trasparenza è totale, non si trattiene nemmeno dall'ormai consueto, ovvio, tedioso, doppio finale che dovrebbe essere l'ultima botta al cuore dello spettatore. A quel punto, in questo momento storico, qualunque spettatore sa esattamente cosa deve aspettarsi. L'ultima sorpresa è il vero happy ending delle nostre decadi per i cosiddetti edge-of-your-seat thrillers. Pastina per sdentati.
La "fantacritica" fa balenare l'idea d'un Fincher, un Frankenheimer, un Siegel, anche solo un Renny Harlin dietro la macchina da presa, si spera in un cervello al galoppo con tutte queste possibilità ma ci si deve scontrare con la nefasta realtà. Larry Choen, discreto regista con tendenze horror, infarcisce la sceneggiatura di cliches che il regista non fa altro che sguinzagliare.
Ci troviamo, da europei a considerare che le tematiche -mai strutturate, semplicemente accostate- siano quelle atte a soddisfare un pubblico da Bible Belt statunitense (la fascia di stati del Sud più conservatori e
"bigotti") per cui la città è covo del male, ancor più se è l'internazionale New York (la dottrina Monroe è endemica), lo yuppie, effettivamente unica caratterizzazione acida ma riuscita, è il simbolo della perdizione giovanile e del naufragio dei veri valori.matrimonio, rettitudine morale.
A voler fare l'autopsia si mette così in atto un duplice movimento partecipativo: poste le polarità in campo, il cecchino malato di mente (Kiefer Sutherland, chissà se in originale aveva un accento di NY al pari del gran simulatore Farrel?) riesce ad apparire per qualche istante come provvidenziale mano-di-dio che redimerà il cittadino telefonico. Un fastidio partecipativo che per non lambire la coscienza dello spettatore ha una durata infinitesima.
E la cabina telefonica? Rimane solo il luogo, sventrato, letteralmente, privato d'ogni portanza di significazione, a far da compendio alle strillanti ma comunque simpatiche puttane che vorrebbero usare la "loro"cabina (comic relief per ogni audience) ed al capitano di polizia triste, psicanalizzato, di fresco divorziato che però ha un cuore.
Prodotto da David Zucker.

Un uomo all'interno di una cabina telefonica, in linea con un cecchino impazzito che lo tiene sotto tiro e guardato a vista anche dalla polizia, che lo crede un assassino. Ci sono tutti gli elementi per un thriller carico di tensione, dai risvolti claustrofobici e dal forte impatto emotivo. Nelle mani di Joel Schumacher, invece, l'interessante soggetto sfuma in un convenzionale film del genere "solo contro tutti". Il problema principale del lungometraggio e' che le dinamiche dell'azione sono subito esplicite. In pratica, non c'e' un mistero da svelare, ma il "movente" del maniaco redentore e le "colpe" della vittima lasciano poco spazio ai dubbi dello spettatore, in grado di capire tutto troppo in fretta. Essendo chiaro il "cosa", resta da scoprire il "come", ma gli sviluppi non riservano particolari sorprese. Ad aumentare il distacco da quanto scorre sullo
schermo, si rivela determinante la scelta di dare al cecchino una voce non disturbata dal filtro della cornetta ma perfettamente nitida, come se il dialogo telefonico alla base della sceneggiatura avvenisse "live". Una decisione determinata probabilmente dalla necessita' di non appesantire troppo il prodotto finale, ma con il risultato di rendere immediatamente "falsa" una situazione dai presupposti "veri". Fin dall'inizio, comunque, la regia di Joel Schumacher e la sceneggiatura di Larry Coen non vanno per il sottile, caratterizzando il protagonista, ben interpretato dal divo in ascesa Colin Farrell, come uno yuppie maleducato, egocentrico e cinico. Un personaggio che pare un residuo sopra le righe degli anni ottanta, per nulla contaminato dalla voglia di apparire o dall'ansia di scoprire se stesso e ancora fermo ai must vanziniani "carrierismo" e "ostentazione". Ma tutto il progetto rischia di apparire gia' datato in partenza, dal look (i vestiti, il trucco, il taglio di capelli) all'ambientazione (la stessa cabina telefonica, i palazzi, le vetrine). A dare il colpo di grazia al film e', pero', la virata moralistica finale, con un monologo di "mea culpa" che semplifica in modo imbarazzante psicologie, situazioni e sviluppi narrativi. Tutto il film pare proteso alla inevitabile resa dei conti, in cui la presa di coscienza del protagonista trova sfogo in un pistolotto espiatorio che azzera le sfumature e attribuisce alle cose la fastidiosa etichetta di "giusto" e di "sbagliato". Oltre che al semplice intrattenimento, quindi, il film sembra ambire anche a riassumere senza alcuna ironia (come al solito assente dalle corde di Schumacher) i mali del millennio: la comunicazione ridotta a frenesia telefonica, la perdita di valori, il consumismo come scudo emotivo. Ma la critica e' di grana grossa e il thriller langue.
