Animazione, Fantascienza, Recensione

IMMORTAL (AD VITAM)

Titolo OriginaleImmortel (ad vitam)
NazioneFrancia/Italia/Gran Bretagna
Anno Produzione2004
Durata102'
Sceneggiatura

TRAMA

Horus, dio egizio dalla testa di falco, arriva in volo sulla grande Mela con lo scopo di fecondare una donna e preservare così l’immortalità che sta per perdere. La divinità ha solo sette giorni di tempo e per riuscire nell’impresa sarà costretto a incarnarsi in un corpo umano. Il prescelto è Nikopol, un prigioniero politico ibernato trenta anni prima.

RECENSIONI

Una piramide sopra i cieli di New York, una divinità in cerca del tramite di un corpo umano per riprodursi, un serial killer all'opera per le strade della metropoli, un sovversivo dissidente scongelato, una ragazza dalla pelle diafana e dal corpo in misterioso divenire, una dottoressa che fa strani esami, mutanti e umani in difficile convivenza. Il fumettista Enki Bilal (nato a Belgrado ma parigino d'adozione), al terzo lungometraggio, mette in scena le sue tavole disegnate e costruisce un universo futuro (la vicenda è ambientata nel 2095) in cui fondali digitali, personaggi di sintesi e attori in carne ed ossa convivono in precario equilibrio. L'operazione, apprezzabile per il coraggio del regista di sperimentare e per la capacità di dare corpo alla sua personale visione, ha però evidenti limiti, sia estetici che di contenuto. La storia infatti, inutilmente complicata e frammentata, procede senza mordente e priva di tensione. Ogni ostacolo trova, nella piatta sceneggiatura dello stesso Bilal, immediato superamento: la divinità cerca una donna con rarissimi requisiti e la trova al primo colpo, viene spedito dai "cattivi" un anfibio gigante per uccidere i "buoni" e al primo scontro il mostrone viene ucciso, e così via. Le dinamiche dell'azione non poggiano neanche su personaggi sufficientemente interessanti. Ognuno ha il suo dettaglio ricco di fascino (una lacrima blu, una testa di falco, un piede d'acciaio) e la sua forte motivazione, ma la caratterizzazione non gode di quelle preziose sfumature in grado di uscire dalla meccanica causa - effetto e di regalare verità all'azione. Perdipiù non si va oltre il solito conflitto basato sulla diversità, e l'amore come facile, ma improbabile, punto di arrivo. Nemmeno l'occhio gode come vorrebbe: le enormi scenografie digitali, in cui la tecnologia del futuro è immersa in un'atmosfera di decadenza post-industriale dal vago sapore retrò, è vecchia come il cucco, i costumi continuano a saccheggiare la saga dei fratelli Wachowski, e la commistione tra pixel e carne (una sorta di "Chi ha incastrato Roger Rabbit" al contrario) ha effetti soprattutto di gelido straniamento. Poco originale anche la New York a più livelli, con intrecci di strade sospese nel vuoto, ma a difesa di Bilal bisogna riconoscere che è grazie al suo contributo visionario che astromobili colorate sfrecciano nel vuoto della megalopoli de "Il quinto elemento". Sfida il ridicolo, invece, e perde la scommessa nonostante il consueto charme, Charlotte Rampling in camice bianco e parrucchino laminato da ballerina di Charleston.

Il fumettista Enki Bilal (di origini jugoslave) traspone, liberamente, due sue opere (gli albi illustrati “La Fiera degli immortali" e "La donna trappola", primi due della trilogia di Nikopol) in un misto di live action e animazione digitale. È stato il primo a sfruttare la tecnica degli attori stagliati su di uno schermo verde da sostituire con il lavoro digitale in postproduzione. Non è ben chiaro per quale motivo abbia scelto di lasciare, in un’opera quasi tutta “disegnata”, i volti “veri” di tre attori in carne ed ossa, affidandosi invece al “motion capture” (molto meno realistico e convincente di quello hollywoodiana) per tutti gli atri “interpreti”, ma il suo immaginario complesso e barocco e il suo intricato plot stregano fin dal primo fotogramma. Non ammette edulcorazioni per il passaggio su grande schermo: mantiene intatta l’inventiva raffinata, decadente/cyberpunk (alla Blade Runner e Brazil), anche pretenziosa (ma ci sta: vedi Nikopol che recita bellissimi versi di Baudelaire in una consona atmosfera epica/cupa) della scuola del fumetto francese (di cui Bilal è uno degli esponenti più innovativi, dopo essersi formato su riviste come Pilot e Metal Hurlant).