TRAMA
Tre fratelli americani, che non si sono parlati per un anno, partono per un viaggio in treno attraverso l’India alla ricerca di se stessi e del loro legame perduto nella speranza di tornare a essere fratelli come nel passato.
RECENSIONI
Il mondo di Wes Anderson è sempre più chiuso in se stesso, fieramente ci verrebbe da dire, perché è difficile trovare un film meno calcolato di questo, e più sincero, e più votato all’insuccesso commerciale. Chi non ha amato i precedenti del regista (lamentando un vuoto dietro i vari funambolismi del suo cinema) difficilmente si farà piacere questo, chi li ha amati ha di fronte a sé due possibilità: apprezzarlo, anche molto (è il mio caso), o cominciare a stufarsi e dire che è ora di smetterla (Anderson ha affermato che il presente chiude una trilogia). Ancora una volta il centro dell’opera andersoniana è la famiglia, una famiglia disfunzionale (il vero grande leit motiv del cinema americano indipendente degli ultimi anni, così come ripreso dalla narrativa, lo abbiamo detto e ridetto) che cresce e lotta, e crescendo e lottando cerca di comunicare; ancora una volta il film si pone come un accumulo di elementi, non tutti spiegati, non tutti spiegabili senza i dovuti rimandi: vediamo valigie di cui non conosciamo il contenuto, si fa riferimento a fatti di cui non sappiamo nulla, incrociamo personaggi (Bill Murray) che spariscono dopo un minuto (adorabili questi raccordi invisibili/ipotetici/falsi), possibili protagonisti di storie parallele che non ci verranno mai narrate (in questo e nell’ostinato muoversi nel proprio piccolo cosmo immaginario, trovo Anderson, a livello squisitamente narrativo, il più greenawayano dei registi americani), ancora il dato costante del cinema dell’americano è la frammentarietà e il gusto per la divagazione dal filo narrativo principale (a tratti il film è la divagazione), tutti indizi della derivazione letteraria della sua opera e del suo modo di interpretarla. Ancora Anderson insiste su un registro che è brillante fino a un certo punto, che sa essere amaro e triste spesso e volentieri (la morte del bambino indiano, il senso di colpa di Peter/Brody, i due funerali del film, solo per fare un esempio), che genera frizioni, apre piccole ferite, lentamente ma inesorabilmente percepite non appena il film incrocia certe verità riconoscibili; ancora una volta la scenografia principale (intasatissima) è un mezzo in movimento (ieri la nave di Zissou, oggi il treno che attraversa il Rajasthan), ancora l’art direction è il fulcro del suo lavoro (Anderson rifugge la simbologia e predilige la concretezza delle cose, assembla oggetti che si trovano nel posto in cui gira, si pensi ai set italiani di Zissou; nella conferenza stampa ha affermato: “Si scopre qualcosa, non si inventa o si crea: si cerca”, la poetica del trovarobato è gemella a quella di Michel Gondry, altro regista al quale il texano si può associare per molti motivi) e qui risulta tutta giocata sui cromatismi (sono i colori dell’India, per l’appunto); ancora le musiche evocative (le colonne sonore dei film di Satyajit Ray e del periodo indiano di James Ivory si combinano, andersonianamente, ai Rolling Stones o a This time tomorrow dei Kinks), il gusto per il bizzarro, i personaggi paradossali, tutto si combina per ricreare quel realismo magico che oramai è una marca stilistica dell’autore, un’estetica personale che si applica a un mondo complicato e controverso con figure paterne assenti, madri dissidenti, figli pieni di incertezze pronti a riprodurre il ciclo (il karma è il karma).
Alle prese con un film insolitamente tutto al maschile, in cui Jack (protagonista anche del cortometraggio-prologo di questo film, Hotel Chevalier, nelle sale italiane abbinato al film), scrive di personaggi che definisce inventati ma sulla base di ciò che gli accade realmente (capito?), Anderson, senza tema d’apparire ridondante, si applica alla sua materia (sua di lui), la ri-scopre, e parlandoci apertamente di sé (cfr. tutto Gondry), si concede un prefinale dei suoi con la sequenza, a suo modo commovente, che riassume tutti i personaggi, facendoli abitare nei vari scompartimenti del treno, consentendoci di mettere in fila tutti i capitoli di questo ideale romanzo, quelli che abbiamo letto per intero e quelli le cui pagine sono rimaste incollate tra loro.
Wes Anderson non è autore da mezze misure: o si ama o si odia. Rientrando, con le dovute sfumature, nella seconda categoria, ogni suo film diventa un percorso a ostacoli dove a farsi strada, e a divenire via via più bruciante, è un unico interrogativo: perché sono qui? La sensazione di disagio è cominciata con Rushmore, si è ampliata con I Tenenbaum, ulteriormente dilatata con La avventure acquatiche di Steve Zissou e ha trovato definitiva conferma con questo The Darjeeling Limited. Se la razionalità non può fare a meno di constatare una grazia d'insieme e uno sguardo tenero nei confronti dei personaggi, delle loro debolezze e dei loro dissidi, soprattutto familiari, così come non si può non apprezzare l'originale scelta musicale, incastonata con gusto tra le immagini, a soffrire, o, meglio, a far soffrire, è la sensazione di estraneità da cui si viene colti. Un'impossibilità, forse anche un'incapacità, di entrare in sintonia con la presunta comicità delle situazioni, con i crucci dei personaggi, con il loro sentire, il loro esagitarsi in gag che non si capiscono e in cui si finisce col convincersi che non ci sia poi molto da capire. Lo stile è sicuramente personale, quasi riconoscibile a causa della presenza per lo più degli stessi affezionati attori a incarnare macchiette stralunate (Owen Wilson, Jason Schwartzman, Bill Murray, Angelica Huston, più la new entry Adrien Brody), ma il grottesco non produce appigli comunicativi. L'affiatamento tra gli attori è evidente, ma l'essere testimoni dell'on the train" di tre fratelli male assemblati alla ricerca di una madre spersa da qualche parte in India, non crea alcuna complicità. Il loro interagire resta sullo schermo e non lo oltrepassa. Chissà, forse la forza di Anderson è proprio nell'essere diverso dall'omologazione imperante, ma la consapevolezza di essere parte di un gioco che non si comprende lascia prima indifferenti e poi irritati. Bello il set di valigie Louis Vuitton disegnato per l'occasione da Marc Jacobs, il che la dice lunga sulla nicchia dorata alla corte dell'artista più cool del momento.
Un inseguimento contro il tempo – un taxi lanciato a tutta velocità nel traffico indiano che schiva/sfida ogni tipo di cosa incrociata sulla propria strada, un preoccupato Bill Murray per passeggero, l’arrivo alla stazione, l’ultima corsa di questo perfetto (s)conosciuto nel tentativo di raggiungere il “suo” treno e infine, a sorpresa, l’affiancarsi durante la corsa – una gara? - di un altro personaggio e il sorpasso definitivo: Adrien Brody aggancia la storia, Bill Murray, sconfitto, viene abbandonato per sempre (o no?) in attesa del prossimo treno.
Dopo il prologo, ciò che si ricongiunge tra gli scompartimenti del Treno per il Darjeeling è la storia dei tre fratelli Whitman; si riparte ovviamente da Wes Anderson: da inquadrature-ripostiglio, che scivolano davanti alla macchina da presa; da ossessioni cromatiche: contrappuntano l’immagine e la narrazione laddove ogni situazione è saturata con una propria netta cromia, libera di rappresentarsi pienamente in se stessa; da personaggi dalla patina arrendevole, sospesi verso un qualcosa che già aspettano come inevitabile, e ritratti in tutta la loro straniante sofferenza di emblemi consapevoli della propria condizione bigger than life.
Un doppio abbandono – la morte del padre e la fuga della madre in qualche remoto angolo di mondo (e di storia) - è il supposto trauma che i fratelli Whitman si ritrovano a dover fronteggiare durante il loro viaggio attraverso l’India; tuttavia il viaggio proseguirà non tanto nella direzione di un programmatico riscatto spirituale (quello dei personaggi), quanto verso la rappresentazione della incontenibile frammentarietà narrativa, sorta di dramma visivo che tutto coinvolge e tutto minaccia, in un universo dove il valore logico dell’assunto “Un oggetto abbandonato è un oggetto trovato” è ribaltato: ciò che il film dichiara è “L’oggetto ritrovato è prima di tutto un oggetto abbandonato”. Per questo l’indicazione che precede l’inizio dello short film Hotel Chevalier (“da vedersi prima del film”) risuona così precisa. Nel cortometraggio, una giovane coppia – tra cui il più giovane dei Whitman (Jason Schwartzman) - subisce l’“abbandono” della macchina da presa, che sceglie di far scorrere i titoli di coda, anziché dentro il quadro del dramma appena mostrato, sopra la facciata di un palazzo dentro il quale sono racchiuse, come tante finestrelle, altre storie disponibili allo sguardo. La narrazione può quindi “perdersi” liberamente nonostante viaggi lungo binari ben tracciati, per rispondere di un momento inaspettato che si presenta non tanto come una deviazione, quanto come un punto, fermato e scelto a caso lungo la medesima traiettoria narrativa, dal quale in un attimo ci si allontana. L’abbandono, grande tema andersoniano, si assolutizza così attraverso l’effetto più immediato, quello rintracciabile nell’ininterrotto aggancio visivo – il sommo dono del cinematografo – di (quasi) sempre ridondanti e nuovi oggetti narrativi e rappresentativi. Gli oggetti si presentano allora come i tasselli di una misura drammatica che investe il personaggio, minacciato continuamente da una perdita di interesse emotivo che si definisce prima di tutto come perdita di interesse scopico. L’azione del personaggio assume di conseguenza l’andamento di una corsa trascinata, come il vagone di un treno, dietro la testa della narrazione; fino all’ultimo atto, in cui la definitiva disfatta dei personaggi sembra scongiurarsi solo con il ritorno ciclico non più a un finale aperto o meno, ma a un nuovo possibile inizio, con un treno in partenza da un abbandono – le valigie, finalmente. Eppure, mentre il film si chiude lungo le rotaie di un (nuovo?) treno in corsa, una domanda sembra accompagnarsi al suo lento passaggio: era davvero necessario raggiungere proprio quel treno?