Drammatico, MUBI, Recensione

IL TEMPO CHE CI RIMANE

Titolo OriginaleThe time that remains
NazioneGran Bretagna / Italia / Francia / Belgio
Anno Produzione2009
Durata109'
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

Quattro momenti nella vita di una famiglia araba, in Palestina, dalla fondazione dello stato di Israele ai giorni nostri.

RECENSIONI

[...] Quando si è assediati, il tempo diventa spazio
Pietrificato nella sua eternità
Quando si è assediati, lo spazio diventa tempo
Che ha fallito il suo ieri e il suo domani. [...]

(Stato d'assedio - Mahmoud Darwish)

Cinema diaristico, quello di Elia Suleiman, arabo in terra di Israele, palestinese: appunti sociologici, riflessioni intime, cronache di una sparizione. Del tempo che rimane. The time that remains, presentato a Cannes 2009, nasce da scritti del padre di Suleiman - unitosi alla resistenza palestinese nel 1948, anno della nascita di Israele - , dalle lettere della madre ai familiari dispersi nella diaspora araba, dai ricordi dell'autore. Quattro episodi, scanditi da dissolvenze in nero: 1948, 1970, 1980, oggi. Quattro momenti di una saga familiare in stato d'assedio. Come nelle opere precedenti il regista appare nei panni di se stesso, saldando storia personale e Storia, privato e pubblico, la particolarità del proprio sguardo alla realtà che lo circonda. Sono pagine ibride quelle dei diari di Suleiman, cronache di amore e di dolore (come esemplificava il sottotitolo di Intervento Divino), istantanee in cui la realtà mostra le proprie assurdità, dove l'abuso del potere si manifesta violento e grottesco, dove commedia e tragedia sono facce della medesima medaglia, frutti paradossali di una terra paradossale, di un luogo in cui ogni esistenza è doppia esistenza, patria ed esilio. Teatro di guerra, focolare. Contraddizione: all'aumentare dell'invadenza del biografico, nella filmografia di Suleiman, è l'impossibilità di fare slittare il conflitto sullo sfondo a farsi consistente, dolorosamente tangibile. L'impossibilità di separare la condizione di uomo, di soggetto, da quella di oggetto delle decisioni del potere, della storia. La condizione di individuo da quella del proprio popolo. In una non troppo recente intervista a Cineaste, Suleiman dichiarava: "Primo Levi poeticizzava gli eventi della vita quotidiana e lasciava l'orrore all'immaginazione del lettore. Ho imparato molto da lui, sia moralmente che esteticamente". Ma, come in Levi, non c'è fuga. Il racconto proustiano di The time that remains crea epifanie che non possono che rimandare a immagini di guerra: la sua lingua si sviluppa ingabbiata nell'area semantica del conflitto, i gag non possono che essere, con alterna intensità e distanza, morettiane (già, morettiane) fotografie dello stato delle cose. Il particolare, costretto nel contesto, non può farsi universale. Palestina, Israele. E' un cinema liminare, quello di Suleiman, obbligato alla superficie delle cose e, al contempo, a depurare il reale dalla faziosità testimoniale dei media, a curare il terrificante malanno di cui soffre il nitore dei fatti: non bastare. Suleiman dunque eleva la realtà a poesia, una poesia semplice, elementare e insieme elegantemente popolare,  tessuta da immagini retoriche immediate, come fine ultimo il nucleo della contraddizione, la materia di cui è fatta (quel)la verità. Il cinema è luogo d'elezione per questa restituzione e se la concretezza minimale dei simboli evoca l'opera di Moretti, i modi cinematografici dell' ironia sur-reale si collocano tra Kaurismaki, Jarmusch e Iosseliani, leggiadria del (contro)tempo e sapienza del (contro)campo, linguaggio cinematografico scarnificato sino a una raffinata, sublime composizione audiovisiva à la Tati (dalla reiterazione degli spazi come seme umoristico all'incredibile stratificazione del rapporto immagine/suono), lo specifico filmico ridotto ad essenza cristallina, il muto all'epoca del sonoro: coerenza estetica impeccabile, ché qui è una questione di spazi, di muri e di porte, di interno e d'esterno, di un popolo muto come Suleiman, Keaton impassibile, tormentato solo per effetto Kulesov, nella fisiologica, indigena necessità del controcampo. Il volto del protagonista è insieme motore umoristico e segno o di un'anaffettività autoimposta: l'atarassia è messa in scena quotidiana, rimedio alla schizofrenia della doppia vita nel tempo immanente di guerra, simbolo umano di un'identità nazionale perduta (cfr. l'incipit). La fissità dei piani è quella della storia. L'educazione al'inerzia delle anime è un antidolorifico. Ma anche un prologo alla sparizione.

Staying alive