Drammatico, Raiplay

IL SINDACO DEL RIONE SANITÀ

NazioneItalia
Anno Produzione2019
Durata115'
Trattodall'omonima opera teatrale di Eduardo De Filippo
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Antonio Barracano, uomo d’onore che sa distinguere tra gente per bene e gente carogna, è ‘Il Sindaco’ del Rione Sanità. Con la sua carismatica influenza e l’aiuto dell’amico medico amministra la giustizia secondo suoi personali criteri, al di fuori dello Stato e al di sopra delle parti. Chi ‘tiene santi’ va in Paradiso e chi non ne ha va da Don Antonio, questa è la regola.

RECENSIONI

Nel mastodontico canone di Eduardo De Filippo mi sono sempre permesso di isolare tre personalissimi sottoinsiemi. Nel primo faccio rientrare le opere più vicine alla rivista, al vaudeville e all’operetta (quella del padre Eduardo Scarpetta, del quale portò periodicamente sul palco alcuni lavori, a cominciare da Miseria e nobiltà - in cui, tra l’altro, fece debuttare il figlio Luca nella parte di Peppiniello -): in esso farei rientrare Uomo e galantuomo, Ditegli sempre di sì, Quei figuri di tanti anni fa, Non ti pago e  quasi tutti i titoli che lo stesso De Filippo ricomprese in Cantata dei giorni pari (quelli che il fratello Peppino apprezzava, a differenza dei lavori “seri”). Nel secondo, molto ristretto, i suoi capolavori, opere mature e dolenti, in cui, non so quanto casualmente, della commedia vi è una traccia quasi evaporata: Natale in casa Cupiello, Filumena Marturano, Le voci di dentro, Sabato, domenica e lunedì, Il sindaco del rione Sanità. Nel terzo residuano le pièce che si muovono a metà strada, assumendo, almeno a tratti, i toni della pochade, ma nel rispetto sostanziale delle ragioni del dramma e di una poetica che, più o meno in superficie, ha coerentemente attraversato tutta la sua produzione (Questi fantasmi!, De Pretore Vincenzo, Il contratto, Dolore sotto chiave, Gli esami non finiscono mai) e metatesti che ragionano su linguaggio, messa in scena o, addirittura, politica teatrale e, pirandellianamente, sulla maschera (La grande magia, L’arte della commedia, Il cilindro e la stessa L’abito nuovo, scritta proprio con Pirandello). In tutti i lavori, o quasi, Eduardo, coniugando la farsa con la tragedia, riuscì a portare sul palco un’analisi - disincantata a volte, ma spietata sempre - dei meccanismi ipocriti che governano la società. Uno sguardo rivelatore il suo, che passava attraverso lo spettro esemplificativo della famiglia. Temi universali, certo, ma svolti in un contesto di scrittura fortemente connotato a livello storico, geografico e linguistico. Questa caratteristica ha quasi sempre condotto, qui in Italia, a messe in scena sostanzialmente rispettose (vigili, in tal senso, gli stessi depositari dei diritti). Così, anche gli allestimenti di Toni Servillo -  tutti magnifici: Sabato, domenica e lunedì vale quello di Eduardo - al di là del trattenuto e modernista gioco attoriale, sono all’insegna della deferenza sostanziale nei confronti di testo e messa in scena originali.
Due le eccezioni recenti, a sottolineare che Eduardo, come ogni classico, può essere riprocessato (e persino stravolto) da una visione d’autore: Antonio Latella parte proprio dalla conoscenza acquisita del testo di Natale in casa Cupiello per farne decostruzione, interpretazione e riduzione in immagini emblematiche, in uno dei vertici del teatro italiano di questi anni; Mario Martone incrocia De Filippo nel 2017 (ed è la prima volta: strano, ma vero), con la produzione per lo Stabile di Torino di Il sindaco del rione Sanità, per iniziativa della compagnia NEST, un centro di produzione artistico-culturale, collocato in una delle zone più problematiche del napoletano e che prende vita dalla riqualificazione di una ex palestra. Da questa realtà proviene, per l’appunto, il protagonista Francesco Di Leva che chiese al compianto Luca De Filippo i diritti sul lavoro, ottenendoli.

Il film, in concorso a Venezia, quindi, prima che essere un adattamento del dramma, è un riarrangiamento dell’innovativo lavoro svolto sul testo dal regista a teatro. Testo peculiare, quello del Sindaco, per lo stesso De Filippo poiché in esso la famiglia non è il nucleo-emblema su cui si focalizza l’attenzione, (e infatti i Barracano costituiscono un ensemble a suo modo funzionante). Il centro dell’opera, invece, è un quartiere-mondo a cui il protagonista (un ras, certo, ma anche un visionario e un rivoluzionario) ritiene di poter assicurare l’ordine applicando la sua personalissima idea di diritto, perché la legge, quella scritta che si applica nei tribunali, non è uguale per tutti (se, come dice Barracano, «l’astuzia si mangia l’ignoranza» a vincere non sarà necessariamente chi ha ragione). E nella riflessione trova spazio anche il rapporto tra due città, quella proletaria, dominata dalla delinquenza, e quella legalitaria della borghesia (il panettiere che apre il negozio in centro, migrando dall’una all’altra, ne costituisce il ponte).
Martone, ringiovanendo i protagonisti, tagliando sì il testo (ne fanno le spese le parti più letterarie, come il lungo monologo finale del medico), ma ossequiandone struttura (i tre atti, tipica soluzione-De Filippo), spirito e letteralità, lo mette a confronto col nuovo contesto, aderendovi e contrastandolo a un tempo. Ma l’operazione non si limita a questo: sottraendo l’opera al suo tempo, il regista la consegna a personaggi la cui eterogenea estrazione sociale si va a rispecchiare nell’eterogenea formazione del cast (composto da attori professionisti, non professionisti, allievi, giovani presi dalla strada). Come con Teatro di guerra, insomma, il cinema del napoletano si rispecchia nel suo metodo di lavoro per il palco: questo si fonda da sempre sulla proficua formazione di gruppi di lavoro, con identità forte e obiettivi precisi. Un laboratorio aperto, un cantiere che è campo di forze diverse, non fondato sullo stile, disinteressato all’accademia e alle questioni formali («se cerchi la vita trovi la forma» dice Eduardo) e basato, piuttosto, sulla sinergia tra contributi di provenienza culturale diversissima. In questo caso Martone avvicina giovani interpreti - vergini rispetto al teatro di tradizione - che affrontano il dramma senza essere condizionati dal tipico fraseggio eduardiano. Impedendo il mimetismo a quella maniera, il regista trova per il testo un’altra voce, un altro ritmo, e un’impostazione più scattante e violenta (scambi veloci, frasi sincopate, parole spezzate, dialetto stretto, attori mobili - sono al bando posture rigide e solenni -). 

Non sorprende, allora, la decisione di fare di quell’allestimento teatrale anche un film: il nuovo linguaggio, vocale e gestuale, si discioglie in una messa in scena che parte dalla fissità teatrale per trascenderla (la molteplicità dei punti macchina), segnata dal realismo scenografico (l’arredamento da cafone arricchito delle due residenze dei Barracano) e da nuove marche interpretative (il Sindaco - un boss del nostro tempo, rintanato nella sua fortezza - è visto come un atleta: Di Leva dice di essersi ispirato a Muhammad Ali), condita dallo stesso hip hop che era già della produzione teatrale (Mario Martone agli attori: «Il testo di De Filippo è uno spartito che può suonare come musica classica. Voi lo dovete far suonare come musica rap»). E disvelante tutta quella parte che nel dramma è solo raccontata, perché ambientata fuori dalle magioni Barracano, e che qui, finalmente, conosce la strada.
La conseguenza quasi paradossale dell’operazione è che, a teatro come al cinema, il testo, sradicato dal mondo eduardiano, messo alla prova della contemporaneità - di una società che conosce una deriva aggressiva al limite del primitivo - mostri nuda e cruda la sua formidabile costruzione, la densità della composizione drammaturgica, la sua ambiguità morale, la potenza (e la ferocia) dei personaggi e l’enigmaticità di alcune figure (quella del medico, che vive in casa Barracano per ragioni che sono da cercare in un passato che - lo stesso Martone lo sottolinea - è pinterianamente omesso). Il film allora finisce indirettamente con l’indagare anche i pregiudizi sul dramma che, dopo tanti anni di rappresentazioni codificate, inevitabilmente esistono (e resistono). E nell’indicare nuove possibili strade da percorrere nell’opera tutta di De Filippo, ancora sostanzialmente inviolata.