Fantasy

IL SIGNORE DEGLI ANELLI – LE DUE TORRI

Titolo OriginaleThe Lord of the Rings: The Two Towers
NazioneNuova Zelanda/ U.S.A.
Anno Produzione2002
Genere
Durata179'
Tratto dadall'omonimo romanzo di John Ronald R. Tolkien
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Il portatore dell’anello e Sam continuano il loro percorso verso i neri cancelli di Mordor, con l'”aiuto” di Gollum. Aragorn, Gimli e Legolas, abbandonata la ricerca di Pipino e Merry, arrivano a Rohan. Nella battaglia del fosso di Helm è determinante l’aiuto di Gandalf il Bianco con un esercito d’uomini, all’alba del quinto giorno.

RECENSIONI

Gli Uomini tra le Torri

La Compagnia dell'Anello si è sciolta ed i membri a gruppetti si sparpagliano nella Terra di Mezzo, Gandalf il Grigio dalle profondità delle miniere nanesche di Moria, dopo la lotta col Balrog infuocato, ricompare come Gandalf il Bianco, Olòrin dell'Ovest, il Mithrandir degl'Elfi.
Le fila spezzate dell'impianto del primo capitolo cominciano a favorire le energie centripete che culmineranno ne "Il Ritorno del Re", quando gli Elfi avranno salpato per l'Ovest e qualcuno sarà re: il discendente di Isildur degli uomini che si era impossessato dell'anello, trentanove generazioni prima.
Le trame parentali si complicano notevolmente, i fratelli, i regni, le razze e le inimicizie che Tolkien ha inventato e che inevitabilmente Jackson deve maneggiare sono difficili da gestire e sono uno dei punti deboli dell'impianto ("Il Silmarillion" del 1977 è l'epopea riassuntiva della fittizia mitologia), assieme al fragile innesto delle sub-trame e delle corrispondenze, ma, forza inattesa e benvenuta, riesce ad essere una delle chiavi di comprensione del lavoro costruttivo della (finta) trilogia. Le ampie campate della prosa descrittiva del romanzo divengono immagini e proprio nella forza inesauribile di queste si stemperano le petulanze, le puerilità e le pignolerie che nell'originale paludano l'avanzare del lettore e potenzialmente indeboliscono l'innegabile forza immaginifica di alcuni plessi: le battaglie, l'atmosfera che si va oscurando, le dinamiche puramente fisiche, il gusto generale dell'ambientazione.
Il primo capitolo portava in sé i germi del dubbio, di un processo che per lo spettatore si sarebbe compiuto in tre tronconi, separati nel tempo almeno di un anno, e che quindi poneva una seria problematica sulla tenuta, sull'organicità; insomma, essendo "La Compagnia dell'Anello" l'introduzione di un mondo e dei suoi moduli particolari, questo contemporaneamente instaurava attese su "Le Due Torri", non tanto sullo sviluppo narrativo (ci vuol poco a sapere come vanno le cose) quanto sulla retorica e sullo stile.
Siamo al nucleo per il quale i superlativi ci vengono a corto. Jackson ha girato ed ideato "Il Signore degli Anelli" come unità filmica, spezzata per necessità commerciali (i.e. distributive & lucrative, Miramax-Disney e Aol Time Warner non sono educande) in tre tronconi com'è articolato il romanzo, ciò comporta un'unità formale e realizzativa che solo ora vede la luce: le attese sono ricompensate, il timore ricacciato e, d'altro canto, lo sconfitto è proprio Tolkien, depurato ideologicamente (se di ideologia val la pena parlare) e fattualmente (deviazioni, scorciatoie e tagli alleggeriscono un impianto eccessivo), pre-esistenza e pre-testualità ad ungere le grandiose strutture cinematografiche. A sostituire le minuzie ed il dettagliato procedere narrativo che porta all'era degli uomini, il tramonto di un'epoca e le fanfaronate possibile preda di seriosità, interviene l'immaginazione fertile di Peter Jackson.
I dettagli d'azione in campi lunghissimi (e magnificamente, come mai prima, digitalizzati), la coerenza generalizzata ma mai pedante, l'accurata scrittura, anche se non sempre il dialogo vola alto, si giungono, oltre l'attesa dello spettatore comune come dello sfegatato tolkeniano, con curati riferimenti pittorici (Dürer, Friedrich, preraffaeliti, Moreau, Boechlin, per dirne un po') e cinematografici, al di là dell'adesione momentanea a canoni di "genere" utili alla progressione drammatica, ricordando, oltre i continuamente citati Kurosawa ed Ejsentsejn, soprattutto il Lang dei Nibelunghi (e si faccia un pensierino alle comuni critiche ideologiche). Proprio come quest'ultimo continuamente inventivo, pronto a bruciare ogni soglia d'attesa ed a sterzare registicamente dall'epico - magistrale- all'intimo sentire umano che, con rara sensibilità, soppianta le già citate pendenze tolkeniane, punta all'assoluto. La violenza spiccia non è mai eccessiva - anche - per ovvie necessità distributive, il montaggio sempre lucido e la generale cura formale procedono per il completamento di un'opera che è pronta per assestarsi come pietra di confine di un cinema popolare ed intelligente, rispettoso degli spettatori e macina di tradizione e futuro.
L'albero sull'armatura di Faramir attende di fiorire a Gondor e sancire la nuova era dei re di Numenor.

[N.B. questo per quanto concerne l'episodio distribuito: oltre alla dilazione temporale sarà poi da valutare quell'effimera forma che "Il signore degli Anelli" potrà assumere per il mercato home video, come già accaduto per il primo capitolo si attendono dunque varie edizioni di cofanetti DVD più o meno onnicomprensivi…non osiamo nemmeno allungare lo sguardo verso quello che accadrà su questo versante quando la "trilogia" avrà terminato la sua vita nelle sale mondiali. Ci torneremo.]

[Peter Jackson compare sulle mura del fosso di Helm mentre tira pietre. Nel primo capitolo era l'uomo che rutta in primo piano fuori dalla locanda]

Con un mese di ritardo rispetto al resto del mondo, arriva in Italia il secondo capitolo della trilogia del Signore degli Anelli: Le Due Torri. Un film enorme, un progetto enorme, un regista enorme. Peter Jackson si conferma il gigante delle megaproduzioni, lo sceneggiatore che è riuscito a condensare l’immensa opera di Tolkien, e il primo regista della storia del cinema a girare tre grandi film contemporaneamente. Peter Jackson è prima di tutto un produttore. Un produttore che possiede tre case di produzione, che collabora con la WETA D. per gli effetti digitali, che vive e lavora in Nuova Zelanda (dove il noleggio di una cinepresa costa un terzo di quello di Hollywood). Questa è la politica che ha permesso a Jackson di proporsi come realizzatore della trasposizione cinematografica più imponente della storia del cinema, e che gli ha fruttato il finanziamento della New Line Cinema (di Bob Shaye). Ci avevano già provato prima di Jackson, Jules Bass e Arthur Rankin Jr (The Return of the King) e Ralph Bakshi (Il Signore degli Anelli), ma entrambi i progetti non erano andati oltre il singolo episodio della trilogia (anche se Bakshi in realtà aveva realizzato due capitoli con un unico film!). Per ben 45 anni la semplice idea di una trasposizione della trilogia completa è stata impensabile. Poi è arrivato Jackson e la sua follia. Accompagnato da un budget di 130 milioni di dollari (lievitato nel corso di tre anni a 310 milioni), 15 mesi di riprese in Nuova Zelanda, 8 mesi di post-produzione, 230 stazioni grafiche, 9 cineprese in contemporanea in diverse location e collegate via satellite, 20.000 comparse e 50.000 attrezzi di scena. Ma soprattutto sono arrivati gli effetti speciali digitali. Peter Jackson è stato fin dagli esordi (Bad Taste) un mago degli effetti speciali. Ma un mago degli effetti s peciali artigianali e a basso costo (l’equivalente di Carlo Rambaldi e Rick Baker). Grazie alla collaborazione con la WETA Digital e con il budget della New Line, Jackson ha fatto il grande salto (preannunciato già dalla precedente collaborazione con Bob Zemeckis per Sospesi nel Tempo). La collaborazione con la WETA Digital ha permesso a Jackson di risolvere due problemi. Ricreare su grande schermo (in modo credibile) gli impressionanti scontri di eserciti narrati nei libri di Tolkien, e realizzare un’incredibile trasposizione visiva delle fantastiche creature che si muovono nell’universo della Terra di Mezzo.
Ma Peter Jackson è anche il primo sceneggiatore che è riuscito (in collaborazione con Philippa Boyens, Stephen Sinclair, Frances Walsh) a condensare un universo narrativo di ben 1200 pagine, in un copione di 300 pagine suddiviso successivamente in tre copioni di 110 pagine ciascuno. L’approccio di Jackson al libro (trasposizione), ovvero la strategia narrativa (racconto della storia), ovvero lo stile della visione (la forma del film a partire dalla sostanza del libro) sono tre aspetti strettamente collegati, e i tre più importanti dell’operazione messa in piedi da PJ (al di là dei numeri della produzione), oltre che essere quelli sui quali viene maggiormente puntata l’attenzione dei fans di Tolkien come dei detrattori di Jackson. Se il primo episodio era stato caratterizzato dalla fretta (il racconto del viaggio nel libro è molto più lungo e ci sono molti più personaggi e situazioni), e dalla necessità di introdurre gli spettatori con gradualità all’interno di uno scenario vasto e molto caratterizzato (meno tensione all’azione e più discorsi esplicativi sulle forze in gioco), Le due Torri introducono fin da subito una maggiore complessità e dinamicità sia a livello narrativo, sia a livello visivo. L’approccio di PJ alla materia narrativa originale si basa su due categorie: traduzione e interpretazione. All’interno della logica dettata da questi due principi, PJ plasma la materia narrativa nella struttura del nuovo racconto del secondo film, imbastendo un periodare ancora più ampio del primo film (la durata è di tre ore), abbracciando non una ma tre storie separate (di contenuto e ritmo diverso), scandendo il discorso con alcune evidenti cesure ritmico-narrative (la presenza di alcuni personaggi). Benché le tre storie vengano portate avanti contemporaneamente, finendo per intrecciarsi fra di loro nel corso di tutto il film (a differenza del libro che divide il secondo capitolo in due parti distinte e senza alcun intreccio reciproco), i tre nuclei tematici emergono in misura diversa nelle tre parti del film: nella prima dominano l’ambiguità e i dubbi dei personaggi (la combattuta personalità di Gollum, l’opposizione Gollum-Sam, e Sam-Frodo), nella seconda la componente romantica e il ritmo lento del lungo flashback centrale (assente nel libro), nella terza lo scontro epico tra le forze del bene e del male, e il ritmo rapido e convulso scandito da una doppia alternanza: quella delle sorti della battaglia, e quella delle tre sottotrame (il Fosso di Helm, gli Ent e Isengard, Frodo e il Nazgul). La funzione di raccordo tra le parti del film è assicurata dalla presenza di alcuni personaggi che non hanno un ruolo principale in questo capitolo, ma che riannodano le fila della complessa strategia narrativa (del singolo capitolo come dell’intera trilogia), con la loro presenza nel capitolo precedente e in quello successivo.
Peter Jackson ha sempre ribadito la propria intenzione di realizzare non il libro nel film, ma un film fantastico supportato da un fantastico testo. Le principali critiche mosse al cinema fantastico degli ultimi venti anni, come giustamente ha ribadito Jackson, hanno sempre riguardato due aspetti del film: il desing (“uno stile sbagliato”) e la scrittura (“testi veramente terribili”). Con la trilogia del Signore degli Anelli PJ ha deciso di passare al contrattacco. A livello dei testi, se da una parte nessuno potrebbe permettersi di avere di meglio per un film fantastico; dall’altra è subito chiaro che PJ, mentre ha mantenuto uno scrupolo filologico nella trasposizione dei testi dei dialoghi (soprattutto nei personaggi più anziani, meno negli Hobbit), ha deciso di applicare i due principi di traduzione e interpretazione (“ho sottolineato, interpretato, spiegato”) per tutti gli altri aspetti della trasposizione. Una materia così complessa come il racconto del Signore degli Anelli proponeva una stratificazione narrativa (livello storico) e una profondità allegorica (livello mitologico) difficilmente traducibili attraverso le esigenze (visive) e le restrizioni (temporali) del mezzo cinematografico. La materia doveva necessariamente essere trattata, cioè adattata alle potenzialità del nuovo mezzo espressivo. PJ aveva due possibilità. Ridurre la gemmazione del racconto in favore della crescita dei contenuti; oppure perseguire l’esaustività visiva della narrazione attraverso la spettacolarizzazione degli effetti macroscopici sulle problematiche di fondo (il paesaggio sul viaggio, la battaglia sul confronto, il segno sul significato). Una scelta comportava una rinuncia. Difficilmente un film che avesse costruito delle solide basi di contenuto senza un valido supporto spettacolare sarebbe riuscito a recuperare gli enormi investimenti finanziari. Dun que PJ ha deciso di puntare sulla spettacolarizzazione delle fiabe di Tolkien. L’occhio che tutto vuole vedere ha avuto la meglio sul piccolo popolo dei significati. Una volta scelto il livello del racconto da salvare, PJ ha operato in due modi. Da una parte ha tradotto la materia storica nella forma degli annales (episodi importanti da riportare, episodi trascurabili da sopprimere), dall’altra ha riconquistato l’unità dell’azione attraverso il ricorso a innesti “bastardi” nel corpo del testo tolkeniano (l’episodio dei Mannari e la sottotrama romantica). Apice della cultura della visione di Peter Jackson sono i due capolavori della tecnica digitale de Le Due Torri: Gollum e la battaglia del Fosso di Helm. Analizzerò solo il primo dei due. Peter Jackson con Gollum realizza un capolavoro per due motivi: primo perché è il CG (computer-generated creature) più complesso della storia degli effetti speciali (è stato realizzato filmando e studiando per due anni i movimenti dell’attore Andy Serkis, e ricoprendoli in un successivo momento con gli effetti digitali realizzati dal software della WETA), secondo perché è il personaggio digitale che in assoluto assomiglia di più ad una creatura viva e autentica. Gollum è importante anche perché illustra bene proprio il principio con cui PJ ha affrontato la trasposizione del libro nel film. Nell’opera di Tolkien, rimane un personaggio sfuggente, ombra di Frodo, pur rivestendo un ruolo fondamentale viene caratterizzato più che approfondito. Nel film PJ traduce letteralmente il personaggio creato da Tolkien (visivamente è una traduzione perfetta), ma lo interpreta nella misura in cui inventa uno scontro tra le due personalità di Gollum che non è presente nel libro (il discorso sul doppio è presente anche nel libro, ma non è interno al personaggio, impensabile in Tolkien, ma esterno: Gollum è il doppio, in negativo, di Frodo). In questo modo l’utopia del fantastico-filologico agognata da milioni di fans si è finalmente manifestata nell’unione c on la visione della materia tipica dello stile di Peter Jackson. Se a livello di contenuti la scrittura di PJ privilegia le opposizioni semplici: Smeagol-Gollum, il fuoco e il metallo di Isengard contro gli alberi degli Ent e l’acqua della diga; dall’altra utilizza la macchina da presa come uno sguardo che vaga incerto sulle rovine del reame di Tolkien, capace di illustrare il bellissimo paesaggio e le stupende ricostruzioni, ma incapace di intrecciare il discorso della visione con quello dello sfruttamento tridimensionale degli spazi, né tanto meno di elevarlo al rango di protagonista della storia (in questo la tecnica registica di PJ è ancora inferiore a quella di tanti altri registi di Hollywood, come John McTiernan: Il tredicesimo guerriero). Insomma Jackson rimane fedele a Tolkien nella magia dell’arte “come volontaria sospensione dell’incredulità” (impossibile non sentirsi coinvolti nello spettacolo visivo) e con il principio della “desiderabilità” (anche se l’appiattisce al livello delle immagini e del movimento), ma fallisce completamente nell’incapacità di “sondare le profondità dello spazio e del tempo”, e di integrarle nella materia narrativa oltre il livello di semplice “agente atmosferico”. Lo stile della regia delle Due Torri, rimane una bellissima fotografia del mondo sognato da Tolkien, e un'eccezionale tecnica di composizione delle immagini, anche se non riesce mai fino in fondo a realizzare la perfetta fusione tra ambienti e personaggi, e ricorre spesso alla moltiplicazione degli sguardi per mascherare l’incapacità di penetrazione dello stesso. Se non è stile, è comunque una tecnica eccezionale.

Guerra Totale

Soffia vento di guerra nel secondo capitolo dell’avventura di Tolkien. L’oscurità allunga le mani sulla Terra di Mezzo e l’opera di Jackson si popola di violenza, orrore, demoni, mostri e spettri pronti a trascinare i Vivi nell’Oblio. Nel suo piccolo, il braccio di ferro fra Bene e Male tende i muscoli nell’Io dissociato dell’ex-hobbit Gollum, un personaggio metà carne metà pixel "interpretato" magistralmente da Andy Serkis: tenero, terribile tossicodipendente dell’Anello che, in plurale maiestatis, guadagna la pietà di Frodo nell’essere una sua proiezione futura. Il Male s’alimenta di paura (Gollum), rabbia (Barbalbero), sfiducia (gli Elfi), avidità (il Riccardo III di Brad Dourif), progresso (la lotta è contro il Nuovo Ordine dell’industria, della macchina, della guerra, dei disboscamenti), superbia (l’uomo si isola), indifferenza (il “Non è affar nostro” degli alberi). Il nano soffia nel Corno e s’alza il canto ai cavalieri ardimentosi e votati al sacrificio. L’epica (stemperata, qua e là, da un’ironia assente nelle pagine del romanzo) gonfia i cuori e gli effetti speciali incantano la vista, alleati e non sostituti della fantasia o degli scenari naturali: è miracolosa la sinergia fra quest’ultimi e i ritocchi digitali, in virtù di un rispetto reciproco che si specchia nel messaggio etico del racconto. Jackson sogna campi lunghissimi che tolgono il fiato (la palude, il totale dell’armata delle tenebre), spazi aperti, montagne, foreste. Li popola di creature fantastiche che non impongono un mondo di fantasia artificioso (costruito in studio, con tonalità cromatiche innaturali). La sua messinscena (o storyboard) è esemplare, la lunga sequenza dell’assalto alla fortezza (dipanata in poche righe dal romanzo) gareggia, per imponenza e magnificenza, con i più famosi episodi bellici della storia del cinema Jackson pare averlo preso dalle bellissime pagg del racconto di Robert H. Howard di Conan “La rocca scarlatta”: la gola, battuta dalla pioggia notturna, s’illumina con le torce di bestie urlanti in cerca di sangue, gli umani digrignano i denti, tutte le geometrie a seguire (ricche di dettagli), strabiliano. È quasi criminale spezzare tale tensione con gli intermezzi (il fiacco e snervante consiglio di Barbalbero), necessari altrove per restituire un complesso parallelo di eventi e creare una nicchia (fra tante barbarie) agli affari di cuore: il triangolo amoroso fra Aragorn, Arwen ed Eowyn è una creazione della sceneggiatura che regala una scena colma di pathos (lei che blocca lo slancio verso il redivivo alla vista del talismano di un altro amore) ed è emblematica la sofferta rinuncia di Arwen a legarsi con la “morte” (la finitudine di Aragorn). Un’opera che, mentre infuria incessante la lotta, soffre, ama e pensa senza essere didascalica (se non in occasione delle forzose considerazioni finali di Sam), con interpreti di razza, musiche ad hoc e il sapore della guerra totale, finale: ma è solo la battaglia del Fosso di Helm. Era dai tempi de I Nibelunghi che non si vedeva qualcosa di simile.

E la saga continua

È passato un anno, con tutto il concentrato di vita racchiuso nella convenzione dei giorni che si succedono ineluttabilmente, ma nella Terra di Mezzo il tempo si è fermato ed è finalmente giunto il momento di ricominciare l'avventura. "Le Due Torri" inizia esattamente dov'era finito il primo riuscito episodio: nessun riassunto della puntata precedente, secondo il volere di Peter Jackson che temeva un approccio televisivo, ma subito all'interno dell'azione per continuare il viaggio. Indubbio il talento visivo di Jackson e la quasi sovrumana capacità di tenere sotto controllo una storia così complessa e articolata, ma la obbligata frammentazione di questo secondo episodio limita per forze di cose il coinvolgimento. Pur riuscendo sempre a trovare appigli a cui aggrapparsi, per non perdersi nella moltitudine di personaggi e situazioni, si fatica un po', a meno di non essere approfonditi conoscitori della saga di Tolkien, a distinguere, non tanto le molteplici creature, quanto le diverse motivazioni di ogni personaggio. La prima parte scorre compatta e avvince, poi i continui rimandi da una sezione all'altra del racconto appesantiscono un po' la visione fino alla spettacolare battaglia finale. Tra i nuovi personaggi colpisce l'espressività del quasi completamente di sintesi Gollum, lacerato da una scissione psicologica non certo originale ma di indubbia efficacia. Il vagare di Pipino e Merry, trasportati da Barbalbero nella foresta di Fangorn, è invece la parte meno riuscita del film e, pur essendo funzionale alla narrazione, evoca una suggestione che non riesce a creare. Anche Gandalf, nel passaggio dal Grigio al Bianco, perde in carisma e diviene un supereroe tra i tanti. In generale si può dire che la maggior parte dei personaggi perde quelle sfumature preziose che avevano contribuito a mantenere alta la tensione nel film capostipite. Ne "Le due torri", infatti, anche quando l'eroe è solo contro mille nemici, o cade da una roccia a precipizio sul vuoto, siamo sicuri che in qualche modo ce la farà e la possibilità di anticipare la vittoria riduce la tensione emotiva. Nonostante una maggiore cupezza di insieme, una a volte inopportuna ironia (le solite battutine virili) stempera troppo le tinte. Lo stesso Frodo ha cedimenti nei confronti del potere dell'anello di prevedibile esito. In ogni caso, un grande spettacolo.
C'è chi ha visto nella determinazione alla guerra, alla base del film, una sorta di metafora dell'attuale situazione tra U.S.A. e Irak e in effetti ... ma per una volta evitiamo metafore, collegamenti e analisi delle intenzioni e lasciamoci trasportare, per quel che ci è possibile, nell'epica avventura