Fantasy, Recensione

IL SIGNORE DEGLI ANELLI – IL RITORNO DEL RE

Titolo OriginaleThe Lord of the rings: the return of the King
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2003
Genere
Durata210'
Tratto dadall'omonimo romanzo di John Ronald R. Tolkien
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Le legioni degli orchi di Sauron si apprestano ad attaccare la città di Minas Tirith. Aragorn, Legolas e Gandalf cercano di mettere su un esercito in grado di fronteggiare l’avanzata del Male. Nel frattempo, Frodo e Sam, guidati dal malefico Gollum, tentano di raggiungere Mordor al fine di distruggere l’anello…

RECENSIONI

Di fronte ad un'opera tratta da un romanzo popolare, s'impongono due condizioni necessarie e sufficienti per una buona analisi filmica: lasciare agli esegeti tolkeniani il compito di confrontare il testo filmico ed il testo scritto; evitare di cadere nella stretta del giudizio condizionato dal miraggio di un'impossibile fedeltà al romanzo (trappola nella quale sono caduti anche critici italiani più o meno autorevoli). L'ultimo episodio della trilogia che forse più d'ogni altra ha saputo rinvigorire un genere, quello fantastico/avventuroso, che sembrava destinato a cadere vittima del digitale, è teso ed avvincente, potente, splendidamente girato, montato divinamente. Grazie ad una sapiente miscela di classico (a livello narrativo, con una fabula rispettosa dei canoni proppiani) e moderno (tecnologie digitali), l'autore di Creature del cielo ha saputo far risorgere dalle ceneri della modernità un'idea di spettacolo puro, di affabulazione giocosa ed allo stesso tempo autotelica ed autoreferenziale, figlia del grande spettacolo griffithiano, con una forza ed una coerenza che non hanno eguali, almeno nel cinema recente, e che trovano nel Lucas delle Guerre stellari un precursore (sulle numerose affinità tra le due trilogie molti hanno già avuto modo di scrivere, a mio giudizio giustamente). Seguendo le avventure dei vari personaggi, Jackson fa uso di un montaggio alternato che quasi mai fa scendere il livello della tensione. Nella parte centrale, il regista riesce addirittura a seguire parallelamente cinque diverse situazioni, ognuna delle quali potenzialmente drammatica: la formazione dell'esercito del vecchio re di Rohan Theoden e della figlia Eowin, novella amazzone (sua la battuta più ridicola del film); il viaggio di Aragorn, Legolas e del nano Gimli nella terra dei morti (davvero notevole); la scalata di Frodo, Sam e Gollum della montagna oltre la quale si trova Gondor; il tentativo di Gandalf di convincere l'inetto sovrintendente della città bianca di Minas Tirith a formare un esercito; l'avvicinarsi minaccioso delle truppe 'orchesche' di Sauron. Solo nel finale il regista sembra cedere il passo, forse condizionato dal pompierismo tolkeniano: l'esigenza di chiudere tutte le parentesi aperte nel corso di più di nove ore di racconto lo costringe a triplicare il lieto fine, di fatto prefinali un poco stucchevoli ma ineludibili e lecitamente gratificanti (risveglio di Frodo e breve ricostituzione della compagnia dell'anello separatasi alla fine del primo episodio ' forse la scena meno bella del film '; incoronazione del nuovo re; ritorno a casa degli hobbit) e chiudere il film con un commovente addio che sancisce wagnerianamente l'inizio dell'età degli uomini e la fine dell'era delle divinità. Solo un arcano rimane inesplicato: che fine ha fatto il Saruman interpretato da Christopher Lee? E' forse morto? E' forse finito risucchiato nella galassia lucasiana?

Piu' che un film, un evento mediatico, un vero e proprio fenomeno di massa che, superando le piu' rosee aspettative al box-office, ha dato voce (ma soprattutto pupille) al bisogno di fuga dal poco rassicurante quotidiano di buona parte della platea mondiale. Ed e' davvero curioso vedere intere generazioni di spettatori in docile sottomissione alle coordinate, non poi cosi' immediate, della Terra di Mezzo. Tutti desiderosi di conoscere la fine di un'avventura iniziata sullo schermo piu' di due anni fa e che ha accompagnato fino ad oggi la magia, molto piu' terrena, del succedersi inesorabile delle giornate. Il primo film, il piu' riuscito della trilogia, ha aperto la strada alla saga con una narrazione compatta, fondendo con peculiare equilibrio i prodigi tecnici e il lato umano dei personaggi. Con il secondo episodio, forse il piu' difficile per la sua fisiologica funzione di raccordo, qualche cosa nei risvolti psicologici si perde, ma il Gollum di parziale sintesi, unito all'epicita' del racconto, mantiene saldo l'incanto. Arrivati al capitolo finale, c'e' la necessita' di tirare le fila della storia (e qualche lungaggine mista ad ingenuita' nei dialoghi si fa sentire), ma Peter Jackson si fa lungimirante interprete delle esigenze di un pubblico famelico di effetti speciali non privi di sostanza. E cosi' orchestra la conclusione sull'attesa (diciamolo, eccessiva) prima della potente resa dei conti. Sono quindi tre i momenti in cui e' possibile suddividere il lungometraggio: la preparazione, la grande battaglia e la conclusione; parte, quest'ultima, dagli esiti ridondanti, con una successione di non-finali che smorza il pathos di addii e onorificenze. Tanto che la parola fine, dopo tre ore e venti minuti di proiezione, e' salutata, nonostante l'affezione verso i protagonisti divenuti eroi, con un "Ohh!" di incredula liberazione. E' comunque il senso di meraviglia il collante delle varie sequenze, tutte improntate alla maestosita' dell'avventura. Solo i fan, o chi in questi tre anni ha avuto voglia di studiarsi il complicato mondo della Terra di Mezzo, potranno capire a fondo le motivazioni dei personaggi. Gli altri, grazie ai diversi livelli di profondita' della sceneggiatura, riusciranno comunque a non perdersi tra le molteplici etnie e a godere principalmente della sublime efficacia dell'impianto visivo. E' con un "ohh!", questa volta di stupore, che si segue lo spettacolare arrivo di Gandalf a Minas Tirith, e l'"ohh!" aggiunge nuove vocali nella trepidazione che accompagna l'ascesa di Frodo e Sam tra le rocce, nelle viscide mani dell'infido Gollum. Le vocali raggiungono poi sonorita' sibilanti quando giganteggia il mostruoso ragno, fino a zittirsi davanti all'imponenza della battaglia in energica progressione, dove draghi e olifanti si uniscono a razze di ogni specie prima che la iattura dell'anello riesca finalmente a dissiparsi. In gioco c'e' la salvezza o la rovina totale e la regia predilige i toni cupi di un'atmosfera vicina al crepuscolo, perfettamente coadiuvata dalla fotografia livida di Andrew Lesnie. Un po' datata solo la resa ectoplasmica dei "non-morti", che riempie lo schermo ma lascia eccessive tracce di pixel. Tra i personaggi, oltre alla scissione di Gollum (che resta la creatura piu' riuscita), ai turbamenti di Frodo, alla prestanza di Aragorn e al carisma di Gandalf, e' il momento di Sam, vero artefice della vittoria e colpisce la breve ma spaventosa maschera di Whitch King, comandante della flotta dei draghi. Gli interpreti continuano a ben rappresentare le dinamiche dei personaggi che incarnano. Gli uomini sono meglio delle donne, ridotte a puro ornamento, fatta eccezione per la guerriera Miranda Otto (Liv Tyler e Cate Blanchett hanno trovato nel film un provvidenziale vitalizio, facendo poco o nulla e ritagliandosi un posto nella leggenda). A questo punto, a degna conclusione della favola, manca solo l'Oscar. Anche se non sara' l'ambita statuetta, cassa di risonanza piu' commerciale che artistica, a determinare il valore di un'opera che, volenti o nolenti, ha cambiato, rivitalizzandoli, i canoni estetici del genere fantasy.

Peter Jackson chiude la sua trilogia e non lo fa esattamente “in bellezza”. Il Ritorno del Re ha una prima parte macchinosa, a serissimo rischio tedio: si avverte netta l’urgenza di inanellare i “fatti” preparatori per arrivare “al dunque”, un dunque che giunge a fil di sirena, all’affacciarsi dei primi sbadigli. Poco male, perché il regista di Bad Taste ha già fatto vedere, soprattutto ne Le Due Torri, di cosa è capace: polso fermo nel gestire le movimentate quests parallele, inusitata capacità di stupire con scorci scenografico/paesaggistici annichilenti e una grande maestria nel gestire le scene di battaglia, epiche fino al parossismo ma nondimeno efficacissime e a tratti esaltanti. Il problema, stavolta, è che tutto questo lo sapevamo già e Il Ritorno del Re non ha al suo arco frecce capaci di scongiurare l’effetto déjà-vu: i molti minuti, una volta superata l’impasse iniziale, scorrono veloci ma serpeggia come un fiume carsico un vago senso di insoddisfazione e prevedibilità. Quando arriva l’epilogo, al quale si perdonano volentieri alcune concessioni hollywoodiane, la pancia è sicuramente piena ma ci si rende anche conto che quella che ci hanno servito è solo una squisita minestra riscaldata. Tirando le somme, dunque, il capitolo della trilogia più riuscito rimane il secondo, quel Le due torri che aveva visto nel personaggio di Gollum (il quale, ne Il ritorno del re, perde gran parte del proprio conflittuale fascino) lo straordinario e “nobilitante” fattore (dis)umano capace di bilanciare emotivamente l’elevatissimo tasso spettacolare della pellicola.