
TRAMA
Una coppia alto borghese, affermata: lei rimane incinta e lui scopre di essere sterile. In verità…
RECENSIONI
L'ultimo film di Corsicato, che arriva dopo ben sette anni dal capolavoro Chimera, filtra ancora una volta la realtà attraverso uno spettro visuale neoplastico e modernista, in cui bidimensionalità, cromatismi primari, culto di certa iconografia già fagocitata dal lounge, diventano le coordinate estetiche sulle quali si muove una storia liberamente ispirata a La Marchesa Von O di Von Kleist: la concretezza colta del riferimento di partenza (come i frequentissimi richiami letterari che costellavano l'opera precedente), però, non intacca mai la sublime vaghezza del cinema del napoletano, Il seme della discordia agganciandosi a un immaginario preciso, già manifestato nelle opere precedenti del regista, in cui si mischiano l'estetica vintage del fotoromanzo, la stupefazione icastica degli intermezzi pubblicitari (ché spot è termine contemporaneo), il misurato degrado del Kitsch, l'inconfondibile decor retrofuturista, un mix di alto e basso condito dalle musiche degli autori vampirizzati dall'exotica dello scorso decennio (Morricone, Piccioni, Trovajoli, Bacalov - manca solo il totem Umiliani -) e dove le alte mire e l'attualità degli assunti servono in primis l'Intrattenimento, ossequiando il Verbo Pop che tutto domina.
Inutile sottolineare quanto il discorso dell'autore costituisca una boccata d'ossigeno nel panorama cinematografico nostrano, tutto consacrato a un realismo troppo spesso codificato e bolso, come la riflessione sulle modalità cinematografiche (gli ironici omaggi a Via col vento, Eisenstein, Milano Calibro 9, Zavattini, DePalma, Kill Bill - naturalmente, vien voglia di dire -, con una vanga al posto della katana, e una chiosa al centro commerciale che quasi rassembra quella di Eyes wide shut, persino l'autocitazione - Libera in tv -) muova dal genere per giungere al sottogenere, con il consueto occhio ad Almodovar a al suo cinema paradossale, al mèlo classico anni 50 e ostentando una parentela stretta con l'Ozon primario. Inutile dire questo: sempre più la critica paludata si va gingillando con i Temi, liquidando come divertissement e carineria (al meglio) quello che era l'unico film italiano veramente degno della competizione veneziana (vincente o perdente, non ci importa nulla). Ha stile Corsicato, ha garbo, leggerezza e gira un film libero che gioca di contrasti: laddove pare inconsistente riesce in realtà a pungere, forte di una messinscena spudoratamente finta in cui, per amor di paradosso, il discorso sulla verità diventa centrale e modulato con sorniona amoralità; in una realtà narrativa che sfugge, inganna e omologa (le sintomatiche Clonette, capitanate da Nike/Martina Stella) i personaggi (superbamente innaturali tutti gli attori), come altere statue inscritte nelle geometrie metafisiche create dalle costruzioni ultramoderne del Centro Direzionale di Napoli (il 'meraviglioso' Sud mentale di Corsicato), scontano la loro perfezione patinata in un mondo imperfetto che sgualcisce la copertina nella quale sono ibernati, lacerando il cellophane che li avvolge. Sotto la brina artificiale di una confezione studiata nel minimo dettaglio, costoro vivono, soffrono sul serio. E Veronica è Vera, per l'appunto.

Negli anni Novanta c'è stato un periodo in cui Pappi Corsicato era considerato il Pedro Almodovar italiano, un po' perché con il regista spagnolo Corsicato ha effettivamente lavorato (è stato suo assistente volontario per il film Legami), un po' per lo stile pop e surreale molto affine al regista iberico. Dopo l'insuccesso di Chimera del 2001, però, Corsicato si è dedicato per lo più ad altro (video sull'arte, documentari, opere liriche, fondazioni artistiche). Torna ora con un film che si avvicina a Libera, sua opera di debutto del 1993, per i colori sgargianti, le interpretazioni anti naturalistiche, le svolte oniriche e i temi alti risolti con leggerezza e ironia. Ciò che più colpisce del suo ritorno è prima di tutto il fatto di mostrare una Napoli inedita, lontana anni luce dall'immagine un po' tragica e un po' ruffiana a cui siamo abituati. Il Centro Direzionale, progettato dall'architetto giapponese Kenzo Tange, fa da sfondo alla vicenda (tratta molto liberamente dal racconto "La marchesa von O" di Heinrich Von Kleist e dal film che Eric Rohmer ne ha tratto nel 1976). Il contesto sociale è quello di una media borghesia, ma a Corsicato non sembra interessino più di tanto analisi sociologiche, riflessioni, giudizi o denunce di qualsiasi tipo. Il suo è un cinema di luoghi, di volti, di colori, di musiche suadenti, di abiti ricercati, di oggetti di design. Si parla di aborto, di inseminazione artificiale, della Chiesa Cattolica, di stupro, ma si tratta di strumenti per garantire l'interazione tra i personaggi e non del fine ultimo del regista che sembra essere unicamente proiettato verso il gusto per la messa in scena. I personaggi stralunati e distanti dalla realtà sono quindi pedine della sua visione e la storia risulta più che altro un pretesto (del resto la soluzione del dubbio che attanaglia la protagonista è quasi subito evidente, anche per lo spettatore meno accorto). In questo senso Corsicato dimostra coerenza. Il rischio, non arginato, è quello di un esercizio di stile un po' gratuito ma l'insieme, più che divertente è piacevole, e abbastanza originale da distinguersi nel panorama di mestizie, grevità o risatone dell'attuale cinema italiano. Certo, si resta più che altro in superficie, ma si ha anche l'accortezza di non cercare la profondità. Il cast sta al gioco con disinvoltura.
