TRAMA
Sono passati 25 anni da quando il vento dell’Est aveva accompagnato Mary Poppins sui gradini di Viale nei Ciliegi n° 17. Ora i piccoli Banks sono cresciuti e, nel pieno della Grande Depressione, rischiano di perdere la casa di famiglia. Ancora una volta l’aiuto della magica tata sarà risolutivo.
RECENSIONI
Tutto cominciò con Alice. Ma non era quella Alice, la curiosa bimba del capolavoro animato del 1951. Era Alice in Wonderland (2010), il rinnovato sodalizio Disney-Burton, che rappresenta il prototipo di una formula che sarà affinata nel decennio successivo, per tener vive e fruttuose le properties di una company sempre più gigantesca. Se in passato si optava per una ridistribuzione nei cinema dei film cult (fino alle riconversioni in 3D stereoscopico), e in parallelo, all'alba del nascente mercato homevideo, per le varie riedizioni VHS, DVD e Blu Ray, oggi bisogna spingersi ancora oltre. Con Il Grande e Potente Oz (2013) la Disney si gioca la carta del prequel ossequioso, grande successo ma imparagonabile a quello del finto remake di Burton in cui, tra omaggi e citazioni, si riprendono situazioni e personaggi conosciuti e amati secondo un' estetica diversa – la sua, unica e inconfondibile, burtoniana appunto – andando poi a confezionare un vero sequel che prende definitivamente le distanze dalle opere sia di Carroll che di Disney. E perché in seguito non fare esattamente il contrario? Maleficent (2014) ripropone nei minimi dettagli il design de La Bella Addormentata nel Bosco andando a volte a ricalcare pedissequamente il film d'animazione, ma ne ribalta le dinamiche arrivando a conferire, de facto, una nuova identità al villain. Con Cenerentola (2015) Kenneth Branagh tenta la strada conciliante del remake-compromesso: fedeltà estrema alla storia ma con un setting e un approccio più moderno, ma dal respiro estremamente classicheggiante. Il Libro della Giungla (2016) e La Bella e la Bestia (2017) rappresentano invece l'apice di questo processo e la vittoria del remake sfrontato che vede il minimo apporto di novità, la riproposizione dell'elemento musical, l'apoteosi della CG e un approccio leggermente più dark. Gli stratosferici incassi hanno convinto la Disney a continuare su questa rotta e nel prossimo decennio praticamente tutta la loro libreria verrà riproposta secondo questa strategia (salvo rare eccezioni, tra cui spicca un dissacrante prequel su Crudelia Demon punk anni '80).
Ma come fare quando in ballo ci sono gli intoccabili mostri sacri del Cinema, nonché potenziali e duraturi franchise? La risposta è il calcolato reboot, che altro non è che un remake/sequel con “nuovi” personaggi, che però svolgono le medesime funzioni narrative dei corrispettivi “vecchi”, magari affiancati da quelli storici; se interpretati dagli ormai anziani attori che li resero famosi, meglio ancora. Anni di ricerche (di mercato), innesti e sperimentazioni hanno perfezionato la formula sempre più … et Star Wars: Il Risveglio della Forza fuit. La logica dietro questa operazione è quasi sfacciata: se il film ha narrativamente funzionato così bene in passato, funzionerà anche ora, il pubblico vergine verrà arruolato, le schiere dei fan saranno mosse da un sentimento di euforica nostalgia, e i critici più ottimisti faranno atto di fede in inediti sviluppi solo negli episodi successivi, quando sarà più facile darsi all' azzardo, una volta (ri)conquistato il pubblico tutto.
E veniamo infine (o meglio finalmente) a Il Ritorno di Mary Poppins, quella Mary con cui “è bello passeggiar” e che “ti sa rallegrar”, proprio lei, non invecchiata di un giorno, seppur incarnata da un nuovo, radioso volto, quello di Emily Blunt. Un seguito in realtà già voluto da Disney in persona, che incontrò questa volta il rifiuto assoluto della Travers, creatrice della serie di libri dedicati al personaggio. Altro fallimentare tentativo venne dalla dirigenza anni '80 - che propose una trama molto simile a quella che vediamo oggi- sempre a causa della inamovibile scrittrice la cui morte e l'appoggio degli eredi hanno invece permesso al sequel di vedere la luce. Il nostalgico omaggio è evidente sin dai lunghissimi (proprio come un tempo) titoli di testa, stilizzati dipinti a olio che fanno da contraltare alle invece dettagliatissime tele di Peter Ellenshaw che aprivano il film del '64, e che in mancanza di effetti digitali, dovevano artigianalmente ricreare una lunga panoramica della Londra di inizio Novecento. Ma dietro la strizzata d'occhio cinefila c'è una dichiarazione di intenti: sembra quel film, ma non lo è, e non è nemmeno quella Mary. Tuttavia non siamo dalle parti della Alice burtoniana, trattandosi di una operazione molto più sottile e calcolata (e infinitamente più rischiosa), in quanto stavolta si ha a che fare con una vera icona, un mito moderno, il cui stesso primo travagliato adattamento cinematografico, raccontato nel film Saving Mr Banks, è divenuto leggenda. Ecco quindi riproporre la stessa struttura episodica (presente già nei libri della Travers, a dirla tutta) dove ogni canzone e personaggio ha il suo doppio nel film originale: non si entra in un dipinto, ma in un vaso (e si ricorre ancora al misto di live-action e animazione tradizionale), non ci sono più spazzacamini ma lampionai, il parente eccentrico non è più lo zio ma una ancora più svitata cugina presa in prestito dai libri (una scatenatissima Meryl Streep), e a volare non sono solo gli aquiloni ma anche i palloncini. Il paragone più adeguato sarebbe il reboot di Guerre Stellari, ma a ben scavare c'è dell'altro. Non sono solo i tempi del racconto ad essere cambiati ma anche quelli della Storia, la nostra. La Grande
Depressione che fa da sfondo al sequel (così come nei libri) altro non è che il nostro desolante presente di matrice trumpiana, laddove gli opulenti e ottimisti anni sessanta ambientarono il film nel fiorente primo Novecento (decisione presa dallo stesso Disney). Ne deriva un tono generale molto più mesto, non semplicemente nostalgico, come potrebbe sembrare a un prima lettura: la famiglia Banks è consumata dall'interno dal fantasma della amatissima moglie di Michael e dall'esterno da una banca ipocrita che minaccia di portar via loro la casa, e la tata, che dall'alto tutto osserva, si adatta alle circostanze e ne fa addirittura una canzone, Sopra-Sotto: “quando il mondo si capovolge, la cosa giusta è girare con lui”. La Blunt offre il ritratto di una Mary molto più vezzosa, ma anche più empatica, che non riesce sempre a tenere testa al signor Banks come in passato e, pur non cambiando il suo metodo pedagogico, improntato sull'ordine e la disciplina, lo adegua ai tempi (i nostri) e piuttosto che impartire lezioncine (in passato, trovare il divertente nelle cose noiose, l'andare a letto presto, il fare la carità e il sapersi divertire nel modo giusto) fa in modo che siano i bambini stessi a dedurle; le sventure hanno fatto maturare prematuramente i gemelli e il piccolo Georgie, che sentono il peso e la responsabilità della difficile situazione familiare e devono imparare altro: a scoprire il potere dell'immaginazione, ad andare oltre le apparenze, a cercare una nuova prospettiva in un mondo che cambia e infine a elaborare il lutto. Insegnamento poi da loro trasmesso, o meglio cantato, ne Il Posto Dove si Nasconde a papà Michael che ha dimenticato tutte le gioie e il sense of wonder che aveva da ragazzino. Del resto, lo sanno tutti, chi Mary Poppins viene a salvare sono i padri. In tutto ciò colui che non trova collocazione in questo spazio/Tempo è il grande Berth, lo spazzacamino (tra le altre cose) e spensierato istrione del film del '64, colui che rompe la quarta parete e incarna la gioia di vivere, mattatore anche un po' sfrontato che si permette di parlare a tu per tu con il signor Banks, scavalcando qualsiasi convenzione sociale; in questo sequel, nella certosina ricreazione di rimandi e corrispondenze, stupisce l'assenza del corrispettivo personaggio di Berth che trova in Jack il lampionaio solo un pallido riflesso, un tanto vivace quanto anonimo accompagnatore. L'impressione è che lo sceneggiatore David Magee non abbia neanche provato a proporre un adeguato sostituto perchè fuori luogo, contraddittorio, privando il film, a torto e a ragione, di una delle sue anime fondamentali. Ne deriva un perdente paragone tra Lin-Manuel Miranda, star di Broadway amatissima in patria, e l'imbattibile Dick Van Dyke che se non altro ritorna in un delizioso cameo danzante. Angela Lansbury, altro vanto del passato e presente disneyano, regala un sorriso nei panni della dolcissima signora dei palloncini, creata anch'essa dalla Travers, mentre Julie Andrews, la storica Mary, ha sportivamente deciso di non comparire in questo sequel, volendo lasciare campo libero alla nuova arrivata, evitando di palesare il, seppur immancabile, confronto.
A subire un totale re-styling è la confezione, che alterna chiaro-scuri nella fotografia, sfoggia ancor più cambi di costume e utilizza la moderna computer graphics durante una coloratissima fantasia sottomarina sulle note di Che Stupendosa Idea!, mentre i nuovi software digitali permettono una convivenza pressoché perfetta tra scenografie, attori e il bestiario-cartoon della Royal Doulton Music Hall dove le animazioni tradizionali, realizzate dai Duncan Studios ad opera di gran parte degli artisti 2D che un tempo erano al servizio degli ormai convertiti alla CG Disney Animation Studios, più che richiamare il character design caricaturale di Ward Kimball del primo film, esaltano l'appealing dello stile Disney anni '90. Sul versante musicale, eccellente lavoro (sacrificato nell'adattamento italiano) è stato svolto dai veterani di Broadway Marc Shaiman e Scott Wittman che, sotto la consulenza di Richard M. Sherman, già compositore del primo film insieme al fratello Robert, spaziano tra melodie spensierate più tradizionali, rap - Lin-Manuel Miranda in L'Abito non fa il Monaco omaggia il suo grandissimo successo teatrale Hamilton - polke, swing, e ninne nanne arricchendo il testo di quelle perifrasi ardite e neologismi tanto odiati dalle Travers: in Puoi Illuminare il Mondo a Festa viene messo in rima tutto l'assurdo slang dei lampionai, protagonisti di una spettacolare e performante (soprattutto registicamente) coreografia che rimanda al sempre disneyano Gli Strilloni (Newsies) - flop cinematografico che ha trovato poi il successo a Broadway- e, ovviamente, a Tutti Insieme che nell'originale vedeva una squadra di spazzacamini ballare sui tetti di Londra secondo lo stile più goliardico e scherzoso degli storici musical MGM. Sotto-Sopra mostra invece una impronta più artigianale negli espedienti visivi, presi in prestito direttamente dal teatro da cui, del resto, il regista Rob Marshall (qui come sempre anche coreografo) proviene. Come i tempi anche il Tempo sembra avverso: ogni secondo mercoledì del mese l'atelier della cugina Topsy si ribalta sabotando il suo lavoro di aggiusta-tutto, e lo scoccare fatidico della mezzanotte è la scadenza ultima per ripagare il debito; solo riportare indietro le lancette (figurativamente il tempo stesso)del puntualissimo Big Bang, e l'aiuto a sorpresa del vecchio presidente della banca che fece fruttare quei famosi due penny che Michael, da bambino, aveva donato a papà Banks nella speranza di aiutarlo, permetteranno il lieto fine. Il “tutto è possibile, anche l'impossibile” declamato da Mary Poppins richiama (è un caso?) una battuta di Alice Attraverso lo Specchio (2017):
“l'unica maniera di ottenere l'impossibile è pensare che sia possibile”. Alla fine “la porta si apre” verso un mondo migliore e Mary Poppins vola via, questa volta senza salutare, senza dire una parola, lo sguardo soddisfatto più malinconico che in passato. Ma chissà, magari il vento dell'Est la riporterà ancora su Viale dei Ciliegi, sempre diversa pur restando la stessa; del resto il tempo continua a scorrere, i sequel continuano ad avere successo, e molti padri continueranno ad avere bisogno di lei.
Cinecromie - «Tutti sanno che Mary Poppins non veste mai di rosso»
Sì, è proprio lei a porre un altro divieto: la Pamela L. Travers di cui, se non fosse per Saving Mister Banks, forse ci sfuggirebbe il nome, mentre a nessuno sfugge la Mary Poppins da lei ideata, così efficace, così efficiente, così “praticamente perfetta sotto ogni aspetto” che giunge ignota annunciata dal vento, eppure, ovunque vada, tutti la (ri)conoscono. La questione, infatti, non sta tanto nel rosso o non rosso, ma in quel “tutti sanno” che determina l’identità di un personaggio che non potrebbe essere altro che quel che è, lo consolida a priori, comunemente noto nelle sue caratteristiche, tautologicamente definito. E chi siamo noi per mettere in discussione questa sagoma perfetta, questo segno dei tempi che giunge quando i sintomi si intensificano per curare il problema alla radice? “Noi” siamo il sistema produttivo, siamo i consumatori, siamo la sala piena o la sala in crisi, siamo il nostro tempo che si lamenta di se stesso sognandone sempre uno precedente o uno successivo. E qual è la radice del problema? Che si debba salvare il padre, educare i figli o riscattare la casa, ciò che Mary viene a salvare davvero è la memoria infantile che muore, la fantasia che viene meno, la capacità di volare che tuttavia si ottiene attraverso una rigorosa assunzione di responsabilità: per questo la amiamo, perché tutto è possibile, «anche l’impossibile», ma niente è semplice o scontato (o viceversa). Nemmeno riuscire a farne un film. Le traversie produttive della Mary Poppins del 1964 sono ben raccontate nel su citato gioiello del 2013, in cui si fronteggiano il Walt Disney di Tom Hanks e la Pamela Travers di Emma Thompson; e da queste faticose trattative, in cui il caro vecchio Walt la spunta ottenendo perfino di inserire parti animate nel film (detestate da Travers), possiamo ripartire, perché già l’anno dopo il successo della Mary Poppins cinematografica, Walt contattava nuovamente la scrittrice per un sequel. Ottenendo, ovviamente, un fermo diniego. Ci riprovava Jeffrey Katzenberg negli anni 80 supportato da Martin Kaplan, allora vice presidente della produzione live-action Disney, ma l’unica cosa che Travers non detestasse dell’intero progetto era Julie Andews che tornava a interpretare Mary (secondo le sue richieste, un anno dopo nella finzione, circa vent’anni dopo nella realtà...). Ed è Kaplan a ricordare (lo riferisce The Hollywood reporter, Making of Mary Poppins returns, 6 dicembre 2018) che fra i dinieghi imposti da Travers c’era anche quello di vestire Mary di rosso. E, si sa, da sempre il rosso al cinema è così importante che perfino le scarpette d’argento del Mago di Oz sono diventate iconicamente di rubino per ragioni di Technicolor: come perdere un’occasione del genere, con il cinema che dopo aver imparato a parlare imparava a colorare? «Che sia rosso!», avrebbe scandito la fata Flora agitando la sua bacchetta in direzione dell’abito di Aurora nel XIV secolo, e così (più o meno) accadde anche a Hollywood nel 1939.
Chissà cosa penserebbe Pamela Travers di Emily Blunt nel suo completo gonna e giacca con mantella dal motivo a zig-zag su fondo rosso, già in vendita online in numerose riproduzioni per cosplayers. Di certo, non si può dire che non sia un guardaroba elegante e minuziosamente curato, quello della Mary Poppins vestita da Sandy Powell (un nome, una garanzia: si pensi alle numerose collaborazioni che vanno da Scorsese a Branagh a Neil Jordan, per citarne solo alcuni), un corredo che dialoga puntualmente col film originale rinnovandolo, trasformando il tailleur ruggine di Julie Andrews sporca di fuliggine di Can Caminì nel citato rosso, il blu marino dell’arrivo di Mary in un royal blue che scongiura il rischio di apparire nero in video, come accadeva nel film originale: tutta la tavolozza appare più brillante, anche se sono passati decenni e, da quel primo Novecento polveroso ma lieto, siamo negli anni Trenta della Depressione in cui per strada si accendono luci elettriche, gli spazzacamini diventano “acciarini”, ma le finanze domestiche sono al lumicino, la banca è implacabile e minacciosa, la proprietà di quella cara vecchia casa in cui tutto era già successo è messa a rischio. Jane e Michael sono cresciuti, la mamma suffragetta è rimpiazzata da Jane (una perfetta Emily Mortimer) sindacalista e, soprattutto, zia dei tre bimbi di Michael (languidamente Ben Whishaw), rimasti senza mamma. È per loro -è per lui, per gli adulti che hanno dimenticato di essere stati bambini- che Mary Poppins ritorna.
Circa tre decadi hanno accorciato un po’ l’orlo della gonna, ma la linea ricorda ancora quella edoardiana con tutti i suoi vezzi e con raffinati omaggi: il pettirosso sul cappello di Emily-Mary -opera di Haruka Myamoto già autrice delle farfalle che arricchiscono l’abito della Cinderella di Branagh (2015)- richiama il “robin feathering his nest” che cinguettava sulla mano di Julie-Mary in Basta un poco di zucchero (e la pillola va giù), fra i tanti brani indimenticabili che questo nuovo film non riesce a replicare. E qui si aprirebbe un’altra lunga parentesi, poiché molte sfumature di una soundtrack che già non regge il confronto si perdono nell’adattamento italiano, a fronte dell’eccellente lavoro del ’64 tale che tutti siamo in grado di canticchiare almeno una canzone del film senza rimpiangere la lingua originale quando già Supercalifragilistichespiralidoso non riesce a tutti al primo colpo. Il punto è: tutti chi? Quale millennial realmente canta le canzoni della tata Mary Poppins in gonnellone del secolo scorso? Ed ecco il nucleo di tutta la questione, per cui il colosso Disney sta soffiando via la polvere dai vecchi gioielli della sua collezione per farli brillare di nuovo, con l’escamotage del remake-sequel già ben esaminato nella recensione di Michele Sottile.
È così che l’istitutrice per eccellenza non solo vestirà di rosso, ma anche di rosa e viola senza rinunciare a cartoonesche fluorescenze, è così che calcherà la ribalta di un café-chantant animato con caschetto e bombetta fra la Liza Minnelli di Cabaret e la Chaterine Zeta Jones di Chicago, indossando abiti che, per accentuare la mimesi con le scenografie e i personaggi disegnati, sono dipinti a mano, effetto tromp-l’oeil immersivo.
Trucchetti o finezze che hanno precedenti illustri nel cinema - su tutti, Danilo Donati per il felliniano Casanova (1976) - ma che vantano anche nomi dal panorama della storia dell’arte: si pensi agli abiti dipinti da Matisse per il balletto Le chant du Rossignol (Stravinskij, 1920). Ma la Mary Poppins del 2018 danza su una superficie fragile, quella di un vaso di terracotta –contraltare odierno dei dipinti in cui si tuffava nella versione che fu-, senza peraltro rispettare fino in fondo l’accortezza di camminare piano, per non scalfirlo (innocenti dimenticanze di sceneggiatura); ma la vera fragilità non è quella della fantasia, ma della realtà, una realtà in cui i bambini parlano di finanze e si accorgono di un papà vulnerabile in una famiglia senza madre (ed è questo il lato realmente bello del film, quello che rinnova le sue figure e le sue istituzioni amandole nella fallibilità), è la fragilità della crisi per cui anche il Big Ben può sbagliare orario e la salvezza è tornare indietro nel tempo (forse a prima di un certo referendum?), delle case che si sono rimpicciolite (per scelta di scenografia, la grande mansione candida dei Banks è diventata più misurata e dal focolare a tinte tenui). Infine, non si salta più sui tetti di Londra Tutti insiem con Dick van Dyke che guida una coreografia scatenata (peraltro Emily Blunt si è accorta di soffrire di vertigini), ma si scende nel sottosuolo, dove Manuel Miranda osserva più di quanto balli, defilato, sorridente e sempre ottimo complice, tuttavia incapace di riprodurre lo sguardo di perenne meraviglia del Bert di Dyke, di essere un co-protagonista dagli occhi innamorati (di Mary? Della vita, principalmente), che riproducono lo sguardo ammaliato dal grande schermo che ci abbandona man mano che gli schermi rimpiccioliscono e le visioni si serializzano. Non più tetti, ma tane, dai tanti lumini accesi. Forse è solo una coincidenza che anche nel nuovo Ralph Spacca Internet (2018) si scenda, nei bassifondi di internet dove si fabbricano virus, o che si scopra una sala nascosta che contiene il peggio del web: i commenti. E, senza forse, se il cinema è lo specchio dei tempi, aveva fatto bene il signor Banks a investire quei due penny, senza i quali, molti anni dopo, i suoi figli non avrebbero più una casa. E diceva bene il signor Dawes, pur reggendosi in piedi a stento, “se crolla la banca d’Inghilterra, crolla l’Inghilterra”. Suo figlio Dawes Jr. ci conferma i buoni investimenti e, d’altro canto, balla anche benissimo: per forza, è Dick van Dyke. Così tornò Mary Poppins, al tempo della Brexit.