TRAMA
Un principe “tardoromantico” affida ad un regista in crisi la regia del matrimonio della figlia.
RECENSIONI
Un uomo che cerca di non essere risucchiato nella spirale del conformismo. La cultura paludata dei “morti” che dilaga contagiando anche il cinema, arte che non riesce più ad intercettare il reale, che ripiega nel passato, nella tradizione letteraria (I promessi sposi), biblica (La madre di Giuda) o, sul versante opposto, storico/politica (la vita di Togliatti). Oppure, il meta-incubo di un padre cui è da poco stata sottratta la figlia, irriconoscibile dietro il velo insuperabile dell’Istituzione matrimoniale. Dal trauma della sua perdita scaturisce un doppio incubo paterno: un film su un matrimonio che non s’ha da fare ma che alla fine si farà (tratto dal romanzo manzoniano) e un film “altro” vissuto direttamente, su un matrimonio che s’ha da fare ma che alla fine (forse) non si celebrerà. E’ tutto questo e altro (la dittatura dei morti, l’impotenza dei non credenti per grazia di dio di fronte all’incredibile ed inspiegabile “mistero della fede”) il nuovo film di Marco Bellocchio, quasi il seguito ideale del capolavoro L’ora di religione. Purtroppo, questa volta il regista sembra non riuscire a trovare il giusto equilibrio, oscillando tra un ermetismo ombelicale sicuramente raffinato, ma un po’ “sterile” e la metafora esplicita, diretta, “frontale” (gli orologi, ad esempio). Incerto tra grottesca, dissacrante, dadaistica demistificazione – non a caso viene citato Entr’acte di Clair ed utilizzate le musiche di Satie scritte per il film – ed onirismo parabuñueliano, l’autore rimane come prigioniero delle sue stesse ossessioni, dei suoi fantasmi personali, segnando una piccola involuzione rispetto ai suoi ultimi lavori, un ritorno preoccupante a tematiche e suggestioni “fagioliane” che credevamo/speravamo archiviate. L’iter del suo protagonista, la rassegnazione prossima all’indifferenza con la quale attraversa, percorre e “vive” una Sicilia cupa e spiazzante, perseguitato da ombre funeree ed inebetito dalle inesplicabili esplosioni di follia “domestica” e addomesticata, non convincono del tutto, così come paiono eccessive alcune figure emblematiche mediante le quali Bellocchio vorrebbe “gridare” il suo disgusto per il conformismo dilagante, denunciare l’impotenza del nostro cinema (Cavina, regista vaticanocentrico, interpretato non a caso da un attore del clan Avati…). Certo, visivamente il film è notevolissimo, alcune sequenze o visioni resteranno, così come lo splendido volto di una Finocchiaro che vorremmo vedere più spesso. Ma come risposta “antagonista” è quasi tautologica, il racconto sembra girare un po’ a vuoto ed il suo autore compiacersi troppo della propria “alterità” militante.
Sola me ne vo per la città
passo tra la folla che non sa
che non vede il mio dolore
cercando te, sognando te, che più non ho.
Ogni viso guardo e non sei tu
ogni voce ascolto e non sei tu
Dove sei perduto amore?
Ti rivedrò, ti troverò, ti seguirò.
E' un prodigio di leggerezza quello evocato da Bellocchio, (unico) capace di girare un film come se si intonasse una canzonetta (magari proprio quella di Sciorilli e Testoni), di affidarsi a un tappeto di sonorità segrete che ne disarticolano l'ascolto, di abbandonarsi a suggestioni che si perdono in una lontananza pre-stilnovista. Il regista di matrimoni lavora con controllata delicatezza su tracce mnestiche, suggestioni provenienti da universi fiabeschi nel loro felice ibridarsi, nel loro improbabile intersecarsi (non I promessi sposi, Le mille e una notte o il Sogno di una notte di mezz'estate in quanto tali, o i loro esibiti mitologemi, ma la wirkungsgeschichte, la loro 'storia degli effetti'), rianagrammandone con inusuale freschezza l'imagerie, cogliendone la meraviglia. E' il mistero profondo del desiderio senza oggetto, del tremore, timore e fremore del fantasma d'amore (del cinema, nella valenza ancipite della forma genitiva) che aleggia attraverso l'oscurità e le luminanze nel gorgo degli sguardi di Franco Elica (cine)operatore e della sua principessa Bona Gravina, traiettorie visive che si smarriscono nell'abisso iconografico delle identità di una Sicilia dalle innumerevoli anime; greca, normanna, saracena, gotica, araba, barocca, un reticolo non territorializzato di rêverie cinematografiche rifunzionalizzate, saggiamente scevre di ingombranti simbologie, nel quale Bellocchio delega nel nome di un padre capricciosamente demiurgo al cinema stesso il compito di comporre una sinfonia scombinata di quadri d'ambiente, uno scollato rondò di episodi da favola, una rapsodia di suoni, colori, odori, afrori in un libero gioco di assonanze visive colte da un vispo, onnipresente, occhio-macchina da presa che guizza inatteso dalle inquadrature, pronto a riorganizzarne le forme a ridisegnarne gli scorci a scontornarne le figure. L'incedere pellicolare assume lentamente la configurazione caleidoscopica di un girotondo audiovisivo nel quale la gioia cromatica delle silhouette e del loro coreografico balletto può tramutarsi improvvisamente in melanconica e struggente danse macabre se solo, come avviene nell'esemplare parabola di Orazio Smamma e del suo attribuire importanza e serietà all'attività cinematografica, si perde il senso dell'innocenza e del gioco e si fa professione di interesse, mercantileggiando l'immagine, in un mondo in cui anche l'artista sottostà alle leggi della struttura economica ('ma lei è un'artista o un venditore di cioccolatini?', oltre a tutto il frasario sublimemente banale speso durante il film) che impone il principio di competizione dei prodotti e dei mercati, una funerea dimensione nella quale sono i morti a dettare le regole, specialmente nel Belpaese. Anche la torbida bellezza di questa Sicilia guardata da Bellocchio con tale piglio soavemente trasfigurante, dipinta nei richiami e rimandi che echeggiano un immaginario che va da Dino Campana a Buñuel, può essere vago riflesso didascalicamente allusivo di un'attualità tristemente italiota. E tuttavia è il consegnarsi alle bizzarrie più squisitamente visive e al gusto del componimento e della descrizione per immagini a tessere la matassa poetica di una pellicola che sprofonda il suo senso nell'incanto dello sfuggirsi chimerico delle derive degli sguardi ansimatamente scalpitanti di artisti, saltimbanchi, sposi e principesse velate, traiettorie che si inscrivono in un'allegria di movimenti, in un delirio rappresentato/rappresentante di forme e figurazioni, di strabilianti confluenze eidetiche. Il cinema, quella strana cosa che dalle nostre parti non si vede quasi mai.
Bellocchio attraversa una fase di straordinaria fertilità, e insofferente di convenzioni e aspettative spiazza costantemente il suo pubblico; ma chi preferirebbe l’ovvietà pedagogica di registi tanto strombazzati quanto mediocri al personalissimo fluire d’immagini dell’autore piacentino? Il quale ha il raro dono di sfumare fatti e personaggi, creando un margine d’ambiguità che li rende non trascurati o sommari ma affascinanti. A tal proposito, anche per questo film si è parlato di narrazione incongrua; ci pare al contrario complessa, sottile, polisemica; meno attenta, certo, alla densità della progressione drammatica che all’evocazione lirica e all’invenzione estetica. Sebbene alieno dall’unilateralità dell’opera a tesi, Il Regista di Matrimoni prende di mira con levità e goliardici (felliniani, si stava per dire) détour i santuari apparentemente intoccabili della società italiana. Non a caso il protagonista segna sulla carta d’identità la professione di “studente” (fuori corso, specifica con volto imperturbabile). Se il primo film di Bellocchio fu un clamoroso atto d’accusa contro l’istituzione della famiglia, in questi anni sono le famiglie a cadere nello sguardo dei suoi pamphlet visionari, non più arcigni ma sardonici e talora soavi. Famiglie di sangue, politiche, cinematografiche, terroristiche, ecclesiali, tutte accomunate da un denominatore foriero della rovina italiana in un accrescersi di grottesco (la beatificazione di una madre stupida ed esaltata) e di tragico (il terrorismo): il corporativismo lamentoso e cinico, l’arrivismo avido, le formule dogmatiche e vuote, la passione per la liturgia (processioni, sceneggiate, matrimoni, sfilate, confessioni, messe cantate, recite di cardinali untuosi e viscidi produttori) tanto fanatica e funerea nell’Italia di Buongiorno, Notte quanto oggi, adeguandosi ai tempi, è tripudio ilare e ciarliero. L’aggressività dei primi anni è stata sostituita da una pietà distaccata e ironica; commossa, tuttavia, dall’incontro con la fatua e disperata viltà che ci rivela a noi stessi (le scene col miserabile, furbetto e risentito Cavina), e scettica quanto basta per ripudiare il rancore e il rimpianto.
È poi da segnalare il rafforzamento di una linea buñueliana (col contorno di un più amichevole simbolismo): l’esasperazione surreale si espande all’interno di coordinate realistiche, inopinatamente. La dimensione onirica e quella oggettiva conducono il loro balletto infinito, trapassano l’una nell’altra (anche nell’impasto della banda sonora) in un’atmosfera di realismo magico ove più della trama contano le insinuazioni, le associazioni mentali, le allusioni, i trasalimenti; clima affatto originale nel cinema italiano “d’autore”, sospeso fra l’astio brado di Moretti, l’ecumenismo dolciastro di Comencini e Ozpetek, il minestrone ulivista di Giordana, l’inane frenesia giovanilistica di Muccino, la molle civetteria da sibilla del senno di poi di Bertolucci.
L’inconscio, il sogno, l’aspirazione fantastica hanno la stessa corposità, lo stesso statuto ontologico del reale. Per fare solo un esempio, si consideri la scena del primo incontro fra i protagonisti, al convento di Sant’Orsola: il rapporto con la madre, l’invenzione narrativa che si spera possa salvare la propria vita (ricorderà una battuta simile il pubblico di Munich; film, al contrario di questo, radicalmente privo di speranza e tale perciò da contraddire, come notava Billi, l’utopia di Sheherazade che mette in scena), il buio misterioso e intricato del desiderio nel quale non possiamo non muoverci a tentoni, pur essendone irresistibilmente attratti. Il rapporto dei protagonisti è squisitamente psicanalitico: egli avrebbe voluto impedire il matrimonio della figlia, e più tardi riuscirà a impedire quello di Bona (una figlia vicaria), con cui può liberare il desiderio altrimenti coperto dal tabù dell’incesto. Non solo le figlie, anche i padri si rispecchiano; Elica può con Bona quello a cui Gravina è impotente: liberarla dal matrimonio-funerale, fungere da padre liberatore anziché castratore. Un padre che non addita il dovere dettato dalla consuetudine, o dall’economia, o dalla mascherata che con triviale supponenza esige un matrimonio “viscontiano”; invita invece allo spazio incognito e vitale in cui solo possiamo trovare noi stessi. Gravina sarà infine grato a Elica di aver compiuto quanto egli stesso desiderava (ma non era abbastanza sventato da volere); sorride sollevato, mentre il tempo riprende a scorrere nella dimora patrizia. Il suo sorriso, e gli sguardi di Castellitto e Finocchiaro che non si incrociano nell’illusorio campo/controcampo che chiude il film (scena fitta di dolore e di malinconico piacere a un tempo), sono lo stupendo regalo di Bellocchio, come il sogno di Chiara in Buongiorno, Notte o il gesto finale di Ernesto ne L’Ora di Religione: l’esaltazione, risolta totalmente nella forma, del peso della responsabilità individuale a cui dobbiamo ostinatamente affidarci; l’accettazione del mare procelloso in cui ci proietta il tremendo dono della libertà. Sempre, per cambiare la propria vita e il destino che sembra scritto, come quello della morte di Moro o della normalizzazione cattolica della famiglia, occorre un gesto che frantumi gli schemi (non è detto che basti, ma questo è un altro discorso). Un gesto anarchico contro i meccanismi della società, della politica, della stirpe: liberare un prigioniero contro ogni calcolo, accompagnare il figlio a scuola anziché a una cerimonia di beatificazione, fuggire da un matrimonio d’interesse per gettarsi nell’ignoto. “L’immaginazione è superiore alla realtà”, replicava un personaggio alla brigatista che in Buongiorno, Notte aveva detto “L’immaginazione non ha mai salvato nessuno”. Se vogliamo ancora essere vivi e non trascinarci come scimmie ammaestrate, come gli sciagurati che mai non fur vivi, dobbiamo far sì che l’immaginazione diventi reale: la nostra salvezza sta nella debolezza della logica, nella forma di un sogno.