Drammatico

IL PASSATO È UNA TERRA STRANIERA

TRAMA

Un giovane avvocato appartenente alla borghesia barese ricorda il suo vissuto da scapestrato frequentatore di bische clandestine insieme a un amico abile truffatore.

RECENSIONI

L’assunzione del testo letterario di Gianrico Carofiglio come momento di partenza si traduce già subito per Vicari in un punto di fuga verso altre esplorazioni diegetiche, altre possibilità testuali che scorticando il dannunzianesimo del romanzo, sbarazzano il campo dall’ingombrante sostrato metafisico alla base della materia narrativa di un ennesimo racconto di sformazione. Così Il passato è una terra straniera derubrica le pretese del conte philosophique per rendere l’impasto cinematografico polpa pulsante nel raccontare una vicenda qualunque calata in una città qualunque, de-esemplarizzandone la rigida ipostatizzazione concettuale, à la Bresson, del romanzo di Carofiglio.
Vicari appare talmente concentrato sui personaggi, le cosiddette dramatis personae, lo si scorge dal taglio rigoroso delle inquadrature in frequente primo piano, in un film che diviene progressivamente graduale smarrimento di coordinate geografiche e territoriali per rendere conto di una topografia interiore di questi due rounders nel loro percorso di attraversamento esistenziale nel cuore della notte e della città. Bari, pur essendo inquietante crocevia di indefiniti movimenti clandestini, non è più il centro propulsore in cui agisce quel male che vi si è accantucciato inesorabilmente dai tempi del boom economico della descrizione carofigliana, e non è nemmeno quel luogo di paralisi sociale – nonostante la brulicante attività metropolitana sottotraccia – dei film di Piva (Lacapagira, Mio cognato), nei quali la connotazione (an)t(r)opologica fungeva da espediente inderogabile per narrare una geografia umana particolarizzata. Vicari sembra inseguire una traiettoria più melvilliana, la sua Bari è un paesaggio indefinibilmente meridionale, quasi luogo anonimo come la Parigi di Un flic, non fosse per questa vernacolarità che riconduce a un immaginario di primitività salentina, ma che alle orecchie del protagonista Giorgio (un po’ come succedeva per il personaggio interpretato da Lo Cascio in Mio cognato) giunge alieno, un po’ per distanza sociale, un po’ per non appartenenza alle medesime latitudini mentali. Ma anche Francesco, baro di professione e per affinità elettiva più prossimo a quel tipo di milieu barese, anche nei linguaggi, si sente straniero in terra straniera e vede la Spagna come orizzonte non semplicemente di maggior realizzazione sociale ma piuttosto come luogo in cui abbia senso ricostruire un’identità. Come si intuisce dalle parole di Maria, la dark lady dei vagabondaggi notturni dei due protagonisti, di notte le città sono tutte belle soprattutto se viste dall’alto, ma quest’anonimia non è data soltanto dal sorvolare notturno dai terrazzi di abitazioni lussuose, perché anche la flânerie in pieno giorno può risultare un viaggio nell’indifferenziato se lo sguardo è quello spaesato di un’interiorità disabitata. E questa anonimia della città viene misurata da Vicari anche nella differenza di psicologie tra Giorgio e Francesco, il primo che anela a qualsiasi altro tipo di spazio che non sia la reclusione della sua stanzetta di studente universitario, il secondo che vorrebbe perforare la notturnità urbana senza nemmeno osservarla, per essere altro(ve) il prima possibile. Allora sono le stesse coordinate del noir a non risultare più sufficienti a Vicari nel suo percorso di scavo intimista all’interno della personalità delle sue due figure, poiché nonostante la concessione ai topoi che certo codice impone, c’è un’urgenza di abbandono del genere, in seguito a una rapida ma incisiva penetrazione, per affidarsi ad altre derive. Il gorgo di questo passato scandito dalle tappe di un viaggio nella disintegrazione morale di due persone che il caso ha fatto incontrare, è preannunciato nel vuoto temporale del campo/controcampo di Giorgio ora giovane avvocato e l’ex cameriera, nell’assenza del suo sguardo, e nelle livide luci del suo presente forense, non meno cupe di quelle dei suoi trascorsi da studente e da imberbe baro. L’illusione di poter dominare la casualità del gioco non mette al riparo dall’insoverchiabilità del tragico, il fallimento esistenziale di Francesco spezza il ritmo sostenuto del film gettandolo in una liquefazione narrativa che si protrae fino a un angosciante finale di brutalizzazione dell’individuo (il giocatore, il laureando, il poliziotto), sempre più étranger di quel paese straniero che è se stesso.