Drammatico, Recensione

IL NOSTRO NATALE

Titolo OriginaleR-Xmas
NazioneU.S.A./Francia
Anno Produzione2001
Durata83'
Fotografia
Scenografia
Musiche

TRAMA

Marito (Lillo Brancato Jr.) e moglie (Drea De Matteo) spacciano roba. Lavorano in casa dopo che la loro bambina è andata a letto. Lui taglia, prepara le dosi e marca le bustine con la sua sigla. Lei riceve gli spacciatori di strada, consegna i quantitativi e incassa. Il tutto sotto le luci di Natale.

RECENSIONI

Dopo due film lontani dagli sche(r)mi, estremi, provocatori, Ferrara torna classico in questa sommessa favola alternativa, in cui marito e moglie, spacciatori di professione, cercano la bambola da donare per Natale alla loro figlioletta - perchè tenero è il cuore di mamma e papà, non conta il mestiere che si fa - e si trovano coinvolti in un'avventura allucinante. L'intervento di un gangsta dal cuore d'oro (non sfiora la donna, che bella lo è, neanche con un dito), risolve favolisticamente la questione: vendere morte è un'attività pericolosa, forse meglio lasciar perdere; ma la roba, anche verghiana, avrà ancora ragione di loro: non si sfugge al proprio destino. Perfetta è la resa di questo paradossale Natale canonico: la recita scolastica, lo shopping al negozio di giocattoli, i familiari, i manicaretti, l'alberello sotto il quale viene depositato, accanto ai pacchi infiocchettati, estraneo eppure perfettamente coerente, lo spaccato livido di un'umanità malavitosa che conduce un'esistenza tragicamente normale, che dispensa baci e carezze a casa e bustine di polvere in strada; la neve non fiocca in queste feste newyorkesi, si taglia. Nonostante il carattere piuttosto lineare, molto freddo e rigoroso, restano tutti riconoscibili i caratteri del Ferrara che conosciamo, soprattutto nella rappresentazione di questi personaggi vivi e neri, sfaccettati e umbratili, nel girovagare metropolitano del film nel quale si inserisce una successione di eventi narrati con fluente naturalezza, una descrizione minimale di momenti e gesti che sanno di "anomala normalità" e che costituisce forse il dato più sorprendente e riuscito dell'opera. Meno dannazione, più (apparente, solo apparente) redenzione per una favola "R"ated e, dunque, non proprio per tutti. Un (bianco...) Natale in casa del pusher.

Il natale, il suo controcanto dello smercio di droga, uomini mescolano polvere ad un tavolo, quotidiano come la festività, come la recita dei bambini e del racconto dickensiano, uno scivolamento d'altalena tra dimensioni che non si attendono contigue, eppure una continuità viene dalle vite di una coppia e dei loro affari. Nell'ammasso cittadino azione ed inazione, i connettori interpersonali, si propongono per Ferrara come gli unici dati di emotività; come in una favola ma con i toni e gli scostamenti brucianti del noir: fattualità e sua percezione si scollano. Il rapitore (Ice T) può mostrare molto più della maschera, la sua umanità, una ricerca reciproca di corpi e sforzi strenui per mantenere la parvenza d'unità, sentimentale e spaziale: continue, lente, cupe dissolvenze connettono griglie metalliche e riflessi, sguardi a gesti, frammentazioni estetiche rari campioni di compostezza formale. NYC, molto più d'un set, latente ed oppressiva grava sul mondo e costringe gli spostamenti a gabbie di ricorrenza iterata. Parole, gesti, strade si chiudono su un breve strappo nel tessuto dell'esistenza, il trauma riassorbito, un equilibrio stabile. Come un lento adagio, il nostro natale, accosta situazioni e persone in una composizione che assume le più svariate tinte: dall'ambito sociale, al crime movie, alla politica, mantenendo equilibrio e lucidità in uno sguardo che, si fa fatica a dirlo con Ferrara, ha molto della dolcezza.

Ci sono tutte gli elementi del cinema di Abel Ferrara in "R-XMAS": l'ambientazione in una New York tanto immersa nello sfavillio di luci e colori quanto crepuscolare; l'impossibilità di una redenzione; il fuori scena di alcuni momenti chiave che vengono lasciati all'intuizione dello spettatore; l'uso inconsueto del flashback che pare non aggiungere molto alla narrazione. A metà strada tra la favola e il dramma urbano, il film lascia un po’ spiazzati. Colpiscono, sia l'ennesimo tentativo di fondere bene e male e di renderne difficoltosa la distinzione, che la straniante visione di un Natale dove le luci e i festoni colorati sembrano proteggere il continuo pulsare di una città sempre in movimento, che non dorme mai. Una metropoli in cui l'illusione di felicità è figlia del lusso e comunque sottintende unicamente beni materiali e status-symbol. La parabola dei due protagonisti, amorevoli genitori di giorno e spacciatori di notte, non convince però appieno. E il loro tentativo di regalare una costosa bambola alla viziata figlioletta, vero motore della storia, risulta poco credibile e una trovata un poco pretenziosa. Come risultano forzati i presupposti narrativi della redenzione ipotizzata dal protagonista. Come al solito, Abel Ferrara costruisce un'atmosfera di inquietudine in cui i personaggi si trovano a dover fare scelte difficili, ma rende il loro destino impermeabile allo spettatore, che ha la sensazione di essere volutamente escluso da quello che lo schermo racconta. Bravi gli interpreti, in particolare Drea De Matteo, donna fedele e innamorata, vera mente della coppia.

Il nuovo film di Abel Ferrara, che a un primo sguardo può sembrare ben più lineare e “semplice” delle sue ultime prove (in particolare del labirintico “New Rose Hotel”), rivela progressivamente la propria natura composita, (dis)articolata. L’elemento portante della struttura sembra essere il cancello, la recinzione, l’idea che esista una sorta di spazio protetto da delimitare e difendere ad ogni costo. Il film è costituito da una cornice (i cartelli che, durante i titoli di testa e di coda, descrivono concisamente la situazione di New York) che avviluppa, cinge d’assedio la fabula (le disavventure natalizie dei coniugi). All’interno della vicenda narrata troviamo diversi spazi chiusi e recintati, in senso metaforico e non: la scuola privata frequentata dalla figlioletta della coppia (con tanto di robusto cancello che si chiude in coincidenza con la fine dei credits d’apertura), il condominio, l’automobile. Lo stesso titolo originale dell’opera, basato su abbreviazioni gergali, costituisce un messaggio in codice che occorre decifrare; in grande rilievo l’aggettivo “nostro”, collocato in apertura. La vita quotidiana, somma di regioni fisiche e psichiche note e perciò rassicuranti, è incrinata da un trauma (il rapimento del marito) proprio in quel periodo dell’anno che dovrebbe essere l’apoteosi della regolarità. Se questo fosse tutto, “R – Xmas” non sarebbe che una pièce de sauvetage come tante altre, destinata a concludersi, secondo consuetudine (altro meccanismo rassicurante), con il superamento di tutti i problemi ed il trionfo dell’amor coniugale. Ma Ferrara si rifiuta di giocare le sue carte prima di averle mescolate: le barriere sono molto fragili, il loro crollo, anche se non definitivo, destabilizza le certezze dei personaggi in maniera irrimediabile. Il regista evita ogni semplificazione morale: tutti (eccetto, forse, la bimba) compiono azioni non adamantine per scopi più o meno nobili. Nobili per chi? Per gli interessati, ovvio. Ragione e Morale sono definibili solo se inquadrate in un contesto: all’interno di una sola “persona” convivono molte maschere. La realtà è frammentata, percepita in varie maniere a seconda degli schermi che la riflettono, come testimoniano i tanti “occhi” (dalla telecamera digitale usata dal padre durante la recita a quelle televisive che riprendono i discorsi del sindaco e le retate della polizia) che la restituiscono allo spettatore. Sotto il medesimo albero di Natale coesistono pacchi dono e confezioni di droga: gli emblemi della vita e della morte si fondono e divengono indistinguibili (se la droga consente ai coniugi di guadagnarsi da vivere, sono i giocattoli destinati alla figlia a metterli, almeno indirettamente, in pericolo). “R – Xmas” si avvicina a “New Rose Hotel”, oltre che per la moltiplicazione di voci e sguardi narranti che dissolve il racconto tradizionale, per il carattere cameristico: brevità (meno di un’ora e mezza), essenzialità (tre personaggi principali, due uomini e una donna, esattamente come nel film già citato), rigore geometrico.  E se il punto di partenza è realistico, non lo è l’approdo: Ferrara disegna, su una storia malavitosa delle più trite, una fiaba metropolitana con (improbabile) lieta fine. Ma si tratta di un finale davvero positivo? Ancora una volta ci si pone il problema del significato di una parola come “bene”: in assenza di risposte assolute, il dilemma non può che essere procrastinato in eterno (vedi la scritta conclusiva). Ambiguità, incertezze, disillusioni, dissolvenze incrociate percorrono gli schermi e le menti in una New York sospesa fra il chiarore accecante del Guggenheim, le luci dei centri commerciali e la notte cupa dei ghetti. Il regista che ha fatto rinascere (con “Fratelli”) la tragedia greca ci guida alla scoperta di un dramma domestico solo in apparenza consolatorio. La verità non esiste, se non come somma di voci contraddittorie, l’amore non implica la sincerità, anche se, come nel Canto di Natale di Dickens, resta l’unica via (abbastanza affidabile) di salvezza. Lievemente dispersivo nella parte centrale, non sempre irreprensibile nella scrittura e nella recitazione (Ice T è un pesce lesso), “R – Xmas” trova i suoi punti di forza nello sguardo penetrante di Ferrara, cui bastano pochi dettagli per definire una scena e gli stati d’animo che l’abitano (emblematica la conclusione), e nella prova stupefacente offerta da Drea de Matteo e Lillo Brancato.

Quotidianità di due pusher d’alto borgo, dove il Natale è una parvenza “censurata” (il titolo originale da “rated Christmas”), le musiche di Schooly-D sono in linea e discordanti, mentre Abel Ferrara, che ama i doppi e le doppie vite, si sofferma sui dettagli di quello che ritrae quale un mestiere qualsiasi, senza pregiudizi (al contrario di Lo Spacciatore di Paul Schrader). Una partenza da film natalizio con bambini dickensiani e canti che accompagnano la macchina da presa in volo per la città: in parallelo, con note da musical, il taglio delle dosi. L’ottima organizzazione spaziale della narrazione raggiunge lo zenit nel brano “sinfonico” in cui Ferrara descrive l’universo degli afroamericani, fra basket, vita di strada e hip hop. Sotto la superficie si nasconde un altro mondo con il sentore di qualcosa di terribile in agguato se, ad esempio, anche il prete è un corriere della droga e i poliziotti sono corrotti (per cui, paradossalmente, i due protagonisti sono figure positive). Ferrara sorprende favorevolmente per sobrietà e cura del particolare non rinunciando agli amati flashback, cade però vittima delle proprie ossessioni con il personaggio inverosimile di Ice T, sorta di angelo nero-vendicatore senza causa scatenante e in vena di moralismi (rivolti a Drea De Matteo, bravissima nel restituire una figura femminile ferma e di cuore). Il film si chiude e non chiude con l’ennesimo Re di New York scorsesiano, mentre i titoli di coda promettono un seguito.