
TRAMA
Una donna di origine italiana esce da una clinica psichiatrica americana dopo quindici anni di degenza. Desidera rifarsi una vita aprendo un ristorante a Davenport, Iowa. Ad un prezzo molto basso le viene proposta Snakes Hall, una villa piuttosto tetra sfitta da tempo. La donna accetta, ma ben presto si accorge che qualcosa non va: all’interno della casa succedono eventi inspiegabili e si odono strane voci. Desiderosa di conoscere la verità nascosta in questo luogo, ignora gli inviti della popolazione locale a traslocare e decide di restare a Snakes Hall.
RECENSIONI
Psycho Haunted House
Principia mirabilmente l’ultimo film di Avati, con una sequenza grottesca e sinistra ambientata a Snakes Hall, magione pullulante di echi inquietanti e perfide presenze. È il 22 dicembre del 1957 a Davenport, Iowa, e sulla lugubre dimora fiocca copiosamente la neve: alle cinque donne che ancora abitano nella villa sta per succedere qualcosa di tragico, irreparabile. Snakes Hall si connota immediatamente come il fulcro orrorifico del film, uno spazio che trasuda malignità e angoscia, avvolto in una coltre di mistero. Dissolvenza incrociata: siamo nel presente. Una donna (Laura Morante spaesata quanto basta) esce da una clinica psichiatrica dopo quindici anni di degenza in seguito a episodi allucinatori derivanti dal suicidio del marito. Questo è l’andamento de Il nascondiglio: spiccio, lestamente disinvolto, vivacizzato da movenze zigzaganti, quasi chabroliane nella dissonante acidità dell’intreccio. Grazie a tale obliquità stilistica, resa ancora più tagliente dal montaggio spigoloso di Amedeo Salfa, le inverosimiglianze che insidiano la narrazione (quando mai si è vista una banca elargire generosi finanziamenti a ex internati? perché questa donna non si ammosca subito che l’affitto della villa è troppo basso? perché si ostina a dimorare, sola, a Snakes Hall?) non intralciano affatto la progressione drammatica, al contrario spargono sul tessuto filmico una sottile patina di sospetto, creando una strisciante sensazione di implausibilità e di “intemporalità” (siamo nel 2006 ma non ci sono cellulari o quasi e si respira un’atmosfera decisamente stagionata). E quello che a tutta prima si configura come un haunted movie dalle risonanze masochistiche (vengono in mente l’esemplare Gli invasati (1963) di Robert Wise e il mortifero Che fine ha fatto Baby Jane (1962) di Robert Aldrich come imprescindibili modelli), col passare dei minuti si impregna sempre di più di sfumature psichiche che anneriscono il ritratto femminile fino a planare verso spiazzanti atmosfere hitchcockiane (il finale è puro Psycho “dislocato”), impetuosamente evocate dallo score à la Herrmann di Riz Ortolani. Non è un caso che, in un film ambientato in America, Avati attinga al repertorio autoctono, trasfondendovi tuttavia una sensibilità squisitamente personale: la profondità antropologica della storia (il misterioso farmacista scopritore delle proprietà analgesiche possedute dal veleno dei serpenti africani) e l’omertosa connivenza della comunità (la ragnatela di reticenze, ostilità e minacce della popolazione locale riecheggia La casa dalle finestre che ridono) sono farina del suo sacco, nessun dubbio a riguardo. La perentorietà della visione: sbarazzandosi risolutamente della pedestre sciattezza dei suoi ultimi film, il cineasta bolognese assegna allo sguardo una funzione trainante, agganciando la cinepresa agli occhi della protagonista in un’audace proliferazione di soggettive e dilatando le immagini con grandangoli che imprimono alle inquadrature una perturbante curvatura mentale. Ancora: all’esterno della villa la mdp si arrampica inquieta lungo le pareti, si insinua nervosa tra le frasche, aggira sorniona il perimetro di Snakes Hall scrutando ghignante il precipitare degli eventi. Riservandoci in chiusura un’asfissiante carrellata cunicolare, oscura cassa di risonanza ad una piccina crudeltà strozzata: “sono loro ad aver paura di noi”.

Pupi il Puparo
Funziona, l’ultimo thriller di Avati, nonostante le deficienze che ne ostruiscono il passo o ne indeboliscono l’impatto. La fretta eccessiva nel giungere ai momenti forti rende precipitoso, soprattutto nella prima parte, l’incedere della fabula con l’andirivieni dei personaggi – talora gravati da dialoghi inconsistenti – e con la progressione delle truci scoperte da parte della protagonista (una Morante che stavolta non spinge sul pedale dell’isteria, e risulta perciò credibilmente inquieta, poi angosciata e infine terrorizzata); se la precoce rivelazione circa la natura della voce misteriosa sposta l’attenzione e l’ansia del pubblico all’eventualità che l’eroina venga creduta pazza, su tale suspense di secondo livello il regista investe assai poco; la sospensione dell’incredulità, che storie siffatte richiedono comunque generosa in chi guarda, ha da essere qui tanto generosa da sfiorare l’incoscienza. Per contro, il sommario schematismo della narrazione conosce una rozza efficacia: il moltiplicarsi dei sospetti potrebbe essere il frutto della paranoia della protagonista; la figura dell’invasata alla ricerca della verità – la gloriosa e devastata Rita Tushingam – mette qualche brivido (e strappa un sorriso nella scena in cui, con sguardo più alienato che mai, rassicura la protagonista sulla sanità mentale di lei); il passato riemerge con uno strappo, a lacerare d’improvviso la patina di vittimismo con cui la viltà cela se stessa; ed è momento tanto più apprezzabile, se si pensa che getta un’ombra scura sul personaggio con cui lo spettatore tende a identificarsi. Sono tutti presenti all’appello i topoi del genere: porte stridenti, nebbia avvolgente, tenebra fitta, antiche canzoni, vecchie con voci da bambina, case abbandonate, effetti anamorfici, soggettive e false soggettive, impennate della colonna sonora, claustrofobica angoscia di soffitte cunicoli e ascensori. Governati con mestiere, seppure con prevedibile meccanica: il professionale artigianato di Avati – nei limiti come nelle virtù – si apprezza anche qui, la perizia dell’illusionista compensando la relativa povertà della fantasia.

Gli occhi di Laura M.
Dopo l’incolore L’amico d’infanzia Avati decide di riprocedere con un doppio distanziamento allontanandosi dall’inerte minimalismo del suo solito insipido cinema e dal fantastico con radici folkloriche e territoriali in cui aveva offerto le prove forse più convincenti, per riesplorare di nuovo, a undici anni dall’Arcano Incantatore, i territori dell’orrore cinematografico. Discostarsi dall’horror padano per girare un prodotto più vicino a modelli d’oltreoceano significa per Avati, in questo Il nascondiglio, fare riferimento ad archetipi estremamente riconoscibili come le Haunted House, quasi un’archistruttura dell’horror americano tout-court (ma anche anglosassone), dalla Universal a Kubrick (passando ovviamente per Hitchcock, Wise, Rosenberg, etc.). Avendo a che fare con case, più o meno infestate, appaiono inevitabili le preoccupazioni di natura “architettonica”, dunque strutturale, e per questo motivo il regista emiliano pialla le assi narrative impiantandole su una solida base di sceneggiatura, ricavata su un’idea sua e di Francesco Marcucci, decisamente poco originale. L’effetto nostalgia per un horror movie d’antan con tanto di inserimento di vecchie glorie di un cinema di genere anche nostrano come Venantino Venantini e Giovanni Lombardo Radice è notevole, il film sembra riprodurre alla perfezione, con innegabile raffinatezza tecnica, stili e stilemi rintracciabili in Suspense (The Innocents) di Clayton, soprattutto nel gioco di attese e sospensioni ritmiche di un senso di paura che va misurato nello scarto spazio-temporale che scansiona i tre momenti topici della sequenza thrilling classica: primo piano - rumore fuori campo - totale. Altri raccordi rinvenibili per la costruzione della messa in scena sono reperibili in pellicole note quali The Changeling e Amityville Possession, ma mentre nel film di Medak, oltre all’elemento del nascondimento del fantasma, ci sono precise indicazioni fotografiche (proprio etimologicamente come studio della (s)composizione chiaroscurale della luce all’interno dell’abitazione maledetta) di cui Avati sembra aver tenuto in seria considerazione (poi magari il film non l’ha nemmeno visto, ma non siamo disposti a crederlo..), il film di Damiani, che con Burt Young nei panni del padre di famiglia italoamericano e buzzurro potrebbe tracciare un’interessante linea di continuità, incarna il cliché della casa come metonimia sociale dell’istituto familiare depositario di una radice malefica. E qui Avati rischia di giocarsi male le carte sfumando fino ad annullarli quegli elementi di ambiguità che rendono poliformemente ambivalente il personaggio della Morante (vulnus simbolico non semanticamente suturabile tra gli eventi luttuosi delle converse e fantasma di una distruzione familiare, o semplicemente coniugale, la presenza di un factum storico e la presenza di un fantasma dell’inconscio, annidato nelle cavità cunicolari dell’io-casa-società[1]). Anche da un punto di vista puramente sintattico le aperture di un testo programmaticamente ancipite (trattato comunque con grande sobrietà espositiva) sull’accadere psichico e/o reale vengono abbandonate più che sospese, come lo sguardo del personaggio della Morante, che tradisce una sola depistante soggettiva (quella con i pupazzi-sposi della torta), confuso nell’indistinto dei totali “oggettivi” sempre fin troppo rivelatori, a volte cadenzati dal piano sequenza, a volte nella fulmineità del flash, smarrito nell’algore di una ragione senza perturbamento.
[1] Il sostantivo inglese Hideout del titolo allude a una dinamica di non-nascondimento, è il riaffiorare di qualcosa o qualcuno che “viene fuori” dal posto in cui precedentemente stava nascosto.

Avati, come fece nel 1994 con L'Amico di Infanzia, ritenta la carta del thriller internazionale girato in U.S.A.: più di allora, trapianta l’horror gotico padano in terra straniera, ma il soggetto è davvero banale, fra casa infestata, spiriti che reclamano la verità (poco importa che i colpi di scena finali passino dal soprannaturale al “naturale”) e giallo su di un fattaccio segretato. Se l’inizio ricorda (anche) Il Romanzo di Mildred, l’ispirazione al regista pare sia venuta da un’esperienza autobiografica (i fratelli Avati tentarono di aprire un ristorante a Davenport, in Iowa) mescolata a fatti di cronaca (la magione di Snakes Hall esiste, ci fu un delitto e una donna di origine italiana tentò, senza successo, di trasformarla in un ristorante). Lo svolgimento non fa che appoggiarsi a decine di convenzioni, gli spaventi sono esigui, l’intreccio è poco sorprendente e, soprattutto, il tutto è realizzato con troppa sufficienza, poca cura della verosimiglianza e della credibilità dei personaggi: la protagonista di Laura Morante ha reazioni esagerate pari solo ai violini terrorifici di Riz Ortolani (vedi come scatta dopo la confessione, senza che il prete gliene abbia dato motivo o come perde fiducia nel personaggio di Rita Tushingham solo perché scopre qualcuno in casa) e le persone che la circondano, giustamente (!), le rendono pan per focaccia in modo altrettanto assurdo (“Non ha fiducia in me? Qualcuno di molto potente le farà qualcosa…”). Film scolastico, colmo di ingenuità, scritto davvero male poggiando, oltretutto, su idee (di cinema, di racconto) risapute.
