
TRAMA
Sulle orme di un atroce delitto di un secolo prima, Jean, fotoreporter, suo marito, il cognato e la donna di quest’ultimo si recano nelle isole Shoals per un servizio fotografico. Una nuova tragedia è dietro l’angolo.
RECENSIONI
Dietro la crisi di Jean e del marito si cela un complicato coacervo di frustrazioni, silenzi, sottintesi che vengono raccontati attraverso sguardi, sezioni di corpi abbronzati, un desiderio che riempie di sè l'aria e che non trova sfogo nell'esile perimetro di una barca circondata dall'acqua. Un bicchiere cade, vino rosso a terra, piccoli terremoti, discorsi come frecce al curaro, intimità violate, negazione di un passato il cui ricordo era dolce non molto tempo prima. Parole, quelle di Thomas, il poeta, il fascinoso e distante intellettuale, che feriscono, polverizzano le ultime vestigia di un sentimento che resiste senza un vero perchè. Probabilmente Thomas ha già amato Adeline, probabilmente Rich lo sa, probabilmente lui ama Jean. Le relazioni tra i quattro sembrano il riflesso distorto delle relazioni tra i protagonisti dell'orrenda vicenda delittuosa alla quale si interessano e che nasconde, dietro il labile velo della sua ovvia soluzione, la verità agghiacciante di un amore assoluto e impossibile, più forte della morte, più impetuoso del furore omicida. Forse come Maren, l'efebica assassina, Jean ha metaforicamente tentato di uccidere Adaline, la bella rivale, facendo della pressione dell'acqua il filo di una scure. Forse come avrebbe fatto Evan, che adorava la sua bella e virtuosa Anethe, Thomas ("Evan!" lo chiama Jean , mentre la furia delle onde lo trascina a largo) si getta a salvare quello che e' il suo attuale vero amore. Forse come Evan, che rinnega un passato incestuoso con Maren, anche Thomas si allontana da una vecchia passione che non sente più sua (la poesia come la fotografia ferma il tempo, "non l'ho mai detto: e' pretenzioso"). L'obiettivo dell'apparecchio di Jean cattura gli attimi, distilla l'atmosfera carica di significato, dipinge il sesso che ammorba di se' l'aria salmastra. La Bigelow avanza bene: per frammenti, allusioni giocate ad arte, porzioni di frasi; disegna una rete imprigionante di verità e menzogne, del passato che si riflette, attuale, nello specchio d'acqua di un mare che promette tempesta. La parte ambientata all'epoca dell'assassinio, pedante e poco significativa, oberata di dettagli, fin troppo esplicata, rende il tutto inevitabilmente meno affascinante. Questo comunque non intacca l'anomalia del film che rimane, accattivante, da provare.

Due storie si sviluppano in parallelo a piu' di un secolo di distanza. Una si riferisce a un sanguinoso fatto di cronaca avvenuto intorno al 1870 in un piccolo villaggio sulle coste del Maine. L'altra si svolge ai giorni nostri, negli stessi luoghi, durante una mini-crociera in cui una fotoreporter deve fare un servizio sul fatto di cronaca accaduto nel passato.
A sei anni da "Strange days", Kathryn Bigelow torna con un film dove il talento visivo si esplica in una sorta di noir cerebrale, in cui l'adrenalina delle scene d'azione e' sostituita dall'introspezione dei personaggi. Non e' un caso, quindi, la citazione da "Il coltello nell'acqua" di Polanski, con i protagonisti riuniti intorno a un tavolo sottocoperta per giocare a "shangai". Dietro la complicita'del gioco, si celano infatti pulsioni e stati d'animo ambigui e non risolti.
La narrazione - pur nella sua frammentazione con addirittura flashback nei flashback (alcuni persino falsi) - risulta appassionante e il senso di tragedia che permea il legame tra le due storie, carica la visione di un senso di morte e vita fusi insieme in un indissolubile binomio. Uno stato d'animo incerto dove la tenerezza e la rabbia hanno radici comuni, ma si evolvono verso strade differenti e razionalmente inconciliabili.
La storia ambientata nel passato ha una progressione tutto sommato lineare e chiarisce in modo dettagliato le motivazioni dei personaggi. Quella nel presente, invece, dietro le parole e i semplici accadimenti, e' sempre allusiva. Questo aspetto, pur nella sua oscura potenza, puo' disturbare un po', anche perche' alcuni sviluppi delle dinamiche affettive e psicologiche dei personaggi, vengono volutamente taciuti al pubblico. Il disorientamento che questa scelta produce, pur spiazzando, ha pero' un interessante aspetto terapeutico che riconduce alla natura catartica del cinema, in cui entrare nelle storie di altri permette di capire aspetti di se stessi. I tasselli mancanti nella vicenda, infatti, derivano dal sottile filo emozionale che lega il nostro inconscio e che la logica non e' in grado di spiegare. E tuffarsi nelle pieghe del non detto produce comunque, al di la' degli enigmi della vicenda, una stimolante occasione di confronto.

Il personaggio di Catherine McCormack entra in empatia con il passato, s'immerge nelle acque che annullano le barriere dello Spazio e del Tempo, incontra una figura a lei speculare, sull'orlo della follia, impaurita dalla propria impotenza. È il peso dell'acqua e della coscienza che fa apparire i fantasmi delle proprie colpe. Il flashback dell'omicidio del 1873 corre parallelo al Presente, a volte si sovrappone, comunica, si riflette nelle complesse dinamiche psicologiche che congiurano a bordo d'un vascello in viaggio sul tessuto connettivo dell'Essenza. La reincarnazione pretende anche la reiterazione dei segni, e la fotoreporter (che con le immagini ferma simbolicamente il tempo) avverte la complementarità con il marito, uomo di poesia e di memoria sublimata, attratto da una seduttrice (Elizabeth Hurley, indimenticabile serpente dell'Eden) il cui volto coincide con quello di un'amante perduta tragicamente. La Storia si ripete come soggettiva d'una mente confusa: nel passato la rivale diviene oggetto d'attrazione/repulsione, ai limiti dell'omosessualità, ed il senso di colpa dell'incesto scatena l'insania; nel presente c'è lo stesso terrore della perdita, la frustrazione sta per annebbiare un'altra mente. Torna il peso della Tempesta, del raptus omicida con Il Coltello nell’Acqua, nel liquido amniotico di Lezioni di Piano e di L'Atalante dove Amore e Morte, a confronto, comprendono che la rabbia non fa che allontanare dall'obiettivo del proprio ardore. È L'Avventura antonioniana della Bigelow, fra incomunicabilità nella coppia, puzzle ed ellissi dell'anima vagabonda su di un'isola del Tempo, senso dello spazio che, incurante delle vuote parole, perde i corpi nelle immagini e nel gioco (meraviglioso) di sguardi. È l'opera più personale e criptica della regista dai tempi di The Loveless, che possedeva lo stesso senso del tragico a venire e un simile languore erotico/morboso. Il best seller di Anita Shreve (co-sceneggiatrice) è risolto nell'ambiguità, con punte esoteriche, lasciato più alle sensazioni che alle spiegazioni. L'orologio cade, si rompe, e il senso (fino a perdere senso) s'espande chimicamente nell'acqua che separa le dimensioni, l'intenzione dall'agire, l'amore dalla follia che lo annichilisce.

Non è certo una citazione fine a se stessa quella dell'Atalante, che abbiamo goduto riconoscendo (impossibile evitarlo dopo lustri fuori orario), sotto il peso dell'acqua come il protagonista del capolavoro di Vigo, il volto di quello che amiamo: nel suo caso quello della sposa, nel nostro quello di un cinema che indaga i movimenti non sempre consci dell'occhio, del corpo, della ragione. Nel caso della Bigelow e della fotografa, protagonista della parte del film che si svolge ai giorni nostri, la scena subacquea sintetizza senza peso il senso dell'intero film: (Heisenberg docet) non è possibile osservare un fenomeno senza cambiarlo e senza esserne cambiati. Quanti sono i flashback falsi e quali quelli veri nella storia ambientata a fine 800? Quali ambiguità sono risolvibili? Cosa è vero? Infine, cosa sta succedendo, ora? Cosa succede durante questo viaggio in barca che doveva essere una occasione di svago? Quasi le stesse domande circolanti su quel barcone che scivolava sulla Senna, dove gli elementi accumulavano e scioglievano tensioni, sensualità, presunti tradimenti e reali riconciliazioni. Ma da allora sono passati quasi settant'anni (e centotrenta dall'altro viaggio di nozze in barca, dalla Scandinavia), e si sente.
L'indagine della protagonista sul passato, che si illude di risolvere un mistero, trascina nella confusione del presente. Il caos dei dati di realtà. Chi tradisce (ha tradito) chi? Chi uccide (ha ucciso) o vuole uccidere chi? Certo non abbiamo a che fare con lo squid o con una banda di criminali con la maschera da presidente: anzi, una combriccola piena di glamour e alcool, ma non è il caso di esserne troppo rassicurati. Una dovuta menzione per Sarah Polley, straordinaria nel ruolo della giovane protagonista dell'antico mistero, Maren Christensen , probabile unica depositaria della verità.

Non c'è nulla che non vada, e che non sia a suo modo efficace, nel nuovo film di Kathryn Bigelow: ma quello che c'è è troppo, e al tempo stesso non è abbastanza.
Non si può dire che manchino i temi portanti: i rapporti, o meglio, gli antagonismi, di coppia, le pulsioni laceranti che non si rassegnano a starsene buone sotto la cenere del quotidiano, l'inesorabile ritorno di un passato censurato, rimosso ma ben vivo in fondo al cuore e soprattutto agli occhi dei sopravvissuti. La regista, se tratteggia con notevole sensibilità le psicologie dei singoli, appare purtroppo incapace di cogliere fino in fondo il senso di mistero, l'angoscia, l'atmosfera di tragedia incombente che caratterizzano i luoghi dell'azione, fotografati asetticamente, con irritanti concessioni alla più corriva estetica da cartolina.
Ma il problema più grave è che spesso "Il mistero dell'acqua" proclama quello che vorrebbe (e dovrebbe, per rendere giustizia all'essenza del racconto) soltanto suggerire. Se la parte contemporanea è inquinata in misura trascurabile da questa fastidiosa esigenza di completezza (fatte salve le scene, insopportabilmente patinate, in cui la bella Adaline fa la vezzosa con il cubetto di ghiaccio e combina altre amenità per stuzzicare il peraltro disponibilissimo Thomas), è nella sezione in costume che si raggiunge il vertice (o l'abisso, a seconda dei punti di vista) della pedanteria. In particolare, non si vede l'esigenza di sottolineare tante volte, nei dialoghi, il remoto (ma non rimosso) legame incestuoso tra Maren e suo fratello Evan, dopo il micro - flashback in cui l'immagine dei due adolescenti in camera da letto si risolve sul dolente primo piano di Sarah Polley (la migliore in assoluto, capace di reggere con impressionante fermezza l'altra grande inquadratura ravvicinata che le dedica la regista, quella in cui è colta a fianco della cognata, la notte della tragedia).
Secondo il critico di "Variety", la struttura binaria del film "potrebbe creare qualche problema agli spettatori". Da quando il cinema - quello vero - serve a qualcos'altro? Se l'arte ha uno scopo pratico (forse non voluto, certamente non prioritario), è proprio quello di creare problemi al pubblico, porne in discussione le certezze (morali come narrative), metterlo di fronte ad uno specchio deformante per indurlo, se non a cambiarle, almeno a riflettere sulle convenzioni del quotidiano.
All'inizio sembra proprio questa la strada scelta dall'autrice: i titoli di testa, in cui diverse carte (documenti ricchi di "fatti") galleggiano sotto la superficie dell'acqua che vela, occulta, cancella, suonano come una dichiarazione d'intenti. Il gioco prosegue con la presentazione in medias res dei protagonisti "ai giorni nostri", nella quale il dialogo, e soprattutto le immagini, forniscono numerosi indizi, anche poco chiari, sui rapporti che intercorrono fra i quattro personaggi: peccato che alcuni degli interpreti (volendo fare nomi, l'insopportabile, gigionesco Penn e l'immota ancorché bella da non dirsi Hurley) non siano all'altezza di un gioco tanto sottile.
La parte ottocentesca è perfettamente confezionata (ci mancherebbe altro), ma poco originale nella struttura narrativa, manichea nei dialoghi e fastidiosamente carente in quanto a humour nero: sembrerebbe di assistere ad un qualunque noioso sceneggiato, se non fosse per la puntualità ossessiva con cui la regista scruta i volti dei suoi personaggi, usando la macchina da presa come un bisturi in grado di sezionare gli angoli più bui della psiche umana.
La sezione contemporanea, dopo il promettente avvio, scivola nel melò più spudorato, con tanto di amplesso abortito in biblioteca e crudeli confessioni tra donne, fortunatamente interrotte dall'arrivo della tempesta (un pezzo di cinema immenso, indescrivibile, che vale da solo la visione del film). Il finale, che intreccia in maniera inscindibile i piani temporali, è un po' troppo catartico per non sembrare forzato, ma certamente non lascia indifferenti, e non è poco.
Nel complesso, potremmo riassumere "Il mistero dell'acqua" con la definizione, coniata da Truffaut, di "grande film malato" (non è necessariamente un'offesa, il regista francese se ne serviva parlando di "Marnie"): un capolavoro riuscito a metà, avvincente più nella concezione che nella realizzazione, pieno di errori grossolani ma dotato di un fascino in parte inspiegabile, vibrante di una passione forse troppo sentita per essere efficacemente espressa.
