TRAMA
Oscar Diggs, un prestigiatore dongiovannesco e imbroglione, si ritrova nel fantastico mondo di Oz, dove viene “scambiato” per l’eponimo mago…
RECENSIONI
A nessuno sfugge la portata teorica del nuovo film di Raimi. Il grande e potente Oz, dialogando con Il mago di Oz di Fleming (del quale rappresenta un prequel), riflette sulla storia di un classico, sulla storia del cinema, sul cinema come tecnica e come magia, sul senso stesso del suo riflettere e sul suo autore. Il solito gioco di specchi, insomma. Con molti riflessi, sdoppiamenti, distorsioni. Si parte con un 4/3 thirties virato al seppia, già contaminato. E’ ovviamente un prologo esplicativo: si omaggia il cinema dell’epoca mentre si omaggia quel film specifico (già di suo bipartito: b/n-colore), contaminando il vintage con l’hic et nunc dell’intrattenimento da multisala (il 3D ingabbiato nell’aspect ratio d’altri tempi che evade, letteralmente, i limiti del quadro). Nel prosieguo si gettano altre basi autoreferenziali, citando i due numi tutelari dell’illusionista Oz, ovvio doppio traslato di Sam Raimi, che indica il proprio exemplum e insieme optimum in una miscela tra Houdini (leggi anche Cinema come Magia, ossia Méliès, nella vulgata dicotomica degli albori della settima arte) e Thomas Edison (Cinema come Tecnica, vulgatamente parlando, i fratelli Lumière).
Esaurita la dichiarazione di po(i)etica, dopo altri rimandi e citazioni letterali dal film del ’39, ci si trasferisce nel regno di Oz. Come nel film di Fleming, il passaggio è segnato dalla virata cromatica seppia / colore, qui risolta con minore inventiva e minor classe: là era l’apertura di una porta che spalancava a Dorothy la “nuova” magnificenza visiva, con sapiente gestione degli sguardi (la soggettiva metaforica diventava, nell’esatto momento della rivelazione, una soggettiva propriamente detta – il suo stupore è anche il nostro – per tornare immediatamente oggettiva, riposizionando lo spettatore in sala di fronte al film rinnovato); Raimi si limita a un lento, progressivo allargamento del quadro (a sguardo comunque condiviso) e contemporanea policromatizzazione, su parossistico sfarzo digitale. Ma non è la stessa cosa. Sfarzo digitale che, tra l’altro, vede protagonista lo stesso scenografo di Avatar che conferma di essere cresciuto a pane e Roger Dean. Sfarzo digitale che, comunque, non si dimentica del suo referente e fa di tutto per palesare la propria natura finzionale, riproducendo concettualmente i fondali dipinti, cartooneschi, “falsi” del Mago di Oz originale.
Da qui in poi, Raimi smarrisce un po' i suoi svolazzi metadiscorsivi e si concentra - ahinoi - su una 'storia' mal scritta e mal raccontata, tra marchi di fabbrica autoriali (un certo gusto per l'illusionismo visivo e il virtuosismo fatto di angoli inusuali e movimenti di macchina impossibili) e nuove citazioni letterali (Mila Kunis streghizzata è identica alla sua passata/futura incarnazione, Margaret Hamilton). E si ritrova solo verso la fine, quando può tematizzare e dare consistenza pratica/teorica al discorso sul cinema, dato che sarà proprio una macchina protocinematografica edison-iana (già arricchita da proto-occhialini 3D, nuova strizzata d'occhio allo spettatore cineplex) a togliere le castagne dal fuoco, a trasformare Oz nel/in un Mago e a traghettare Il grande e potente Oz nel futuro/passato, ossia 74 anni fa, all'immagine distorta di Frank Morgan proiettata su uno schermo (nello schermo) di fumo.
Tutto è però troppo Disney in senso parzialmente deteriore, ossia chiaro, esplicito, rassicurante. Questa Hollywood che parla di sé suona anche sincera (cfr. lo Scorsese di Hugo Cabret) ma, seriamente parlando, diciamo(lo), non interessantissima. Al netto dell’indubbio merito di spalancare le porte del metacinema a un pubblico generalista, anche giovane e giovanissimo, magari poco avvezzo a interrogarsi su cosa sta guardando e cosa ci fa, esattamente, lì, seduto su quella poltroncina. Merito non da poco, che ci facciamo piacere volentieri. Ci facciamo piacere molto meno, però, il livello di lettura base dell’operazione, il grado zero. Che è un po’ una palla. Il film di Raimi riproduce, gli concediamo, intenzionalmente la stessa ingenuità di Fleming [streghe buone, streghe cattive, buoni(ssimi) sentimenti], che però è ormai sedimentata e nobilitata da decenni di Storia del Cinema, fin troppo benevola con Il Mago di Oz. E che qui suona, invece, semplicemente fredda, artificiale, oltre che fuori tempo massimo. Con uno script che sicuramente non aiuta, pieno com’è di tempi morti e falle, del tutto inidoneo a sostenere 130 minuti di pellicola. Torna alla mente la didascalia (molto onesta e autoconsapevole) che apriva il Il Mago di Oz, nel 1939: “For nearly forty years this story has given faithful service to the young at heart; and time has been powerless to put its kindly philosophy out of fashion. To those of you who have been faithful to it, in return… and to the young in heart… we dedicate this picture”. Ecco, diciamo che per Il grande e potente Oz questa youngness in heart (vera, simulata o autoimposta) è conditio sine qua non. A tutti i livelli.
La Disney ritenta la via delle magie del digitale e del 3D dopo il successo di Alice in Wonderland di Tim Burton (stesso art director: Robert Stromberg), inventandosi un prequel a Il Mago di Oz basato sui 14 racconti di Frank L. Baum, senza poter citare il film di Victor Fleming, di cui non possiede i diritti. Affida la regia a Sam Raimi, imbrigliandolo in una sceneggiatura senza fantasia che ricalca l’originale con le tipiche direttrici buoniste ed epidermiche della casa di produzione di Topolino. Raimi nobilita l’operazione con un prologo, ambientato nel circo ambulante, in bianco e nero: una convincente rievocazione d’epoca, cinematografica e non, dove anche la scrittura, a seguire deteriore, dà l’illusione di saper evocare, con ilare malinconia, il dramma di un uomo che inganna prima di tutto se stesso, non conoscendosi. L’immaginifica tecnica del regista, poi, è al servizio di una sequenza come quella all’interno del tornado. Quando si entra nel mondo di Oz, Robert Stromberg (che s’è ispirato ai classici animati di chi lo ha ingaggiato) accentua i colori e le artificiosità e l’effetto è, come nell’Alice di Burton, da photoshop, insostenibilmente finto, per quanto Raimi abbia privilegiato set costruiti artigianalmente. Il 3D ha i suoi momenti di gloria nella resa dell’esperienza dell’otto volante (grande profondità di campo, con oggetti che volano verso il punto di ripresa) e il racconto, sulle orme del progenitore, raccoglie vari compagni durante il viaggio, estensione allegorica delle persone che il mago ha lasciato nel mondo in bianco e nero, atte a ripetere (da cui la potenziale natura onirica di tutta l’avventura) le voci della coscienza che possano risvegliarne le virtù. A non funzionare è, a parte il tema del vigliacco al posto dell’eroe, tutto il prevedibile impianto narrativo, con personaggi unidimensionali, risaputi e situazioni lasche (soprattutto nella parte centrale, con il popolo al di là del muro). Raimi, per fortuna, chiude come aveva iniziato, con il tripudio del potere dell’illusione, facendo vincere la prestidigitazione sulla magia, ovvero la scienza di chi ha reso il futuro possibile: un tema che, evidentemente, sente particolarmente, visto che suo fratello si dilettava nel fare il mago e morì tragicamente a quindici anni. Particolarmente convincente Michelle Williams, nel ruolo di una donna che sopporta e guarda con affetto i difetti del proprio uomo, spronandolo a migliorare.