TRAMA
Alla fine della Seconda guerra mondiale una donna viene accusata di un atroce delitto, l’omicidio del padre, uno spietato collaborazionista. Ai giorni nostri, alla vigilia delle elezioni amministrative alle quali una sua parente si è presentata per la carica di sindaco, il sospetto della sua colpevolezza risorge. Certe colpe, come le malattie, si trasmettono di generazione in generazione? E anche l’amore, tra i componenti di due ricche famiglie, si perpetua senza soluzione di continuità?
RECENSIONI
Ho scritto e riscritto l'inizio di questa recensione senza arrivare a capo di nulla, è già un quarto d'ora che batto i tasti e subito cancello le prime righe di questo contributo. E' un fatto: non so bene come pormi rispetto a questo film, non riesco a comprendere se sono io ad essere stufo dell'ennesimo ritratto in nero della borghesia firmato Claude Chabrol, dopo la notevole prova di GRAZIE DELLA CIOCCOLATA, o stavolta c'è qualcosa che nella pellicola non funziona. Calma, ragioniamo. Pausa sigaretta. Un po' sono stufo, è vero, e riconoscere i soliti elementi che fanno tanto cinema del maestro francese non giova molto al mio umore: la ricca famiglia, i convegni, le colazioni, i pranzi; i discorsi, la minuziosa descrizione degli interni, l'attenzione maniacale per i piccoli gesti, il dettaglio insignificante che, messo in rilievo, acquista valenze quasi grottesche (la lampreda cucinata che fa mostra di sé sulla tavola); poi gli intrighi sotto l'apparente flemma data dall'agio (sempre altissimo), i legami complicati tra i membri della famiglia protagonista, ombre incestuose, paternità incerte, cugini che sembrano fratelli che finiscono a letto insieme con la benedizione dei parenti, un passato che pesa come una minaccia ignota e torna ad ondate per essere decrittato nel finale. Riconoscere tutto questo se da un lato rassicura, dall'altro mi fa cambiare nervosamente posizione sulla poltroncina perché d'accordo il solito parco e la solita villa, d'accordo le automobili (i discorsi sulle automobili e i continui riferimenti ad esse, una vera ossessione in questo film, sono inquietanti anche perché totalmente fini a se stessi e di conseguenza molto veri, molto efficaci), d'accordo il serpeggiare della tensione, il Male che gocciola lento e inquina la storia poco a poco, ma ripiombare in tutto questo stavolta non ha avuto su di me l'effetto di un bentornato (non che mi abbia annoiato, no, ma neanche intrigato). Ma, d'altra parte, mi pare davvero che stavolta Chabrol esageri, perché la storia della menzogna, che informa di sé il vivere quotidiano di questo nucleo familiare, è sottolineata ad ogni pié sospinto, dichiarata di continuo e esplicitata senza nessuna eleganza, senza sottigliezza, anzi con un fare quasi rude (il culmine si ha nella parola finale che chiude la partita di Scarabeo), un po' brutale. In questo già il titolo, così diretto e programmatico, è di per sé significativo di questa tendenza, una vera scelta di campo. Che questo pesi, e molto, mi pare un fatto poiché avverto che stavolta non basta la straordinaria capacità di Chabrol di muoversi in questi ambiti a lui così consueti (la macchina da presa che carrella stupendamente da una stanza all'altra, prescindendo spesso dalle situazioni e dai discorsi in atto - ma l'inquadratura da dietro la gabbia dell'uccellino che mostra tra le sbarre le due donne che saranno coinvolte nell'omicidio finale è attraente e di forzata concettosità -) o la bella idea di una famiglia che si perpetua a circuito chiuso, segnando all'istante il destino dei suoi componenti, per liberarsi dall'impressione di un'opera impregnata di una maniera quasi parodica (sembra, a tratti, il film di un altro regista che chabroleggia). Insomma dubbi e perplessità non riesco a dissiparli né a decifrarli e la recensione non può che mettere in luce l'impasse di un giudizio che sto per uccidere e tradurre nella stanza quadrata di un voto vigliacco. C'è un cadavere in casa e padroni ed ospiti faranno finta di niente. Vero?

Claude Chabrol, abile cantore dei misfatti dell'alta borghesia, continua la sua opera di sottile denuncia cinematografica. Questa volta, pero', il risultato non suscita particolare entusiasmo. La storia prevede l'intrecciarsi di due dinastie familiari che da generazioni non riescono a evitare ambigui legami. L'aspetto piu' interessante del lungometraggio e' lo stravolgimento dei generi: si apre con un cadavere, vira alla commedia sociale e potrebbe evolversi in un dramma, ma i toni pacati hanno sempre il sopravvento. Si raccontano delitti, amori passionali, tradimenti, possibili incesti, ma lo spettatore e' sempre testimone di una misura in grado di razionalizzare qualsiasi evento. Il taglio, non certo originale, ben si adatta alla classe sociale rappresentata, dove le pulsioni indossano gli abiti stretti del sorriso a spigoli, e il film scivola leggero nonostante la grevita' dei fatti (piu' che altro) suggeriti, ma la pacatezza diventa una sorta di ovatta incapace di racchiudere emozione. Anche la critica sociale arriva tra le parentesi del gia' visto e gia' sentito: scheletri nell'armadio, con gli stessi scheletri e lo stesso armadio di una miriade di film piu' incisivi. Torna alla mente il riuscito "Gosford Park", dove il delitto era tutt'altro che centrale e lasciava il posto a un'efficace analisi sull'inconciliabilita' tra aristocrazia e servitu'. Anche nel film di Altman di concreto non accadeva molto, ma i dettagli, la caratterizzazione dei personaggi e una strepitosa sceneggiatura riuscivano a pungere. Nel film di Chabrol, invece, i personaggi sono tutti artificiosamente anestetizzati e finiscono per essere sovrapponibili. La recitazione sussurrata diventa un'inevitabile conseguenza, all'inizio apprezzabile perche' ammantata di ironia, poi sempre piu' forzata e distante, sia dalla concretezza degli eventi narrati che dallo spettatore. Tra i momenti migliori, l'idea di flashback solo sonori e privi di memoria visiva, qualche sottigliezza di scrittura (non sapremo mai chi e' l'autore dell'infamante volantino) e la decisione di chiudere il film un attimo prima della resa dei conti definitiva, lasciando i personaggi sospesi verso un destino ormai irrimediabilmente segnato. Quanto alla confezione, non brilla per ricercatezza e sconta qualche sciatteria (soprattutto nell'utilizzo della luce).

Scrivere qualcosa di sensato sul nuovo film di Chabrol è per me un’impresa al limite della disperazione, perché i motivi che mi inducono a ritenere IL FIORE DEL MALE un mezzo fallimento sono gli stessi che, in altre opere (ad esempio MERCI POUR LE CHOCOLAT e il sottovalutato COLORE DELLA MENZOGNA), mi sono sembrati il divino cardine del cinema del regista francese. Si consideri la sequenza di apertura. Un sipario di frasche occulta e rivela l’elegante parco di un ancor più elegante villino di campagna; la macchina da presa avanza con movimento sinuoso e implacabile fino alla casa, nella quale penetra attraverso una vetrata. Siamo nell’atrio: nell’attigua sala da pranzo la cameriera sta apparecchiando la tavola (la vedremo compiere i medesimi gesti, decenni più tardi, nella sequenza successiva). Lo sguardo del regista ci fa salire la piccola scala che porta al piano superiore, e, ripresici per un momento dal perfido e perfetto moto incantatore della macchina da presa, iniziamo a prestare attenzione alle parole della canzone dolce e frusciante che accompagna l’intera sequenza: il ricordo è l’immagine di un sogno… Siamo giunti al primo piano. Percorriamo un corridoio stretto e buio sul quale si affacciano diverse stanze, dalle cui porte socchiuse filtrano sepolcrali indizi di luce malata. In una delle camere, una ragazza, a terra, ripiegata su se stessa, forse piange, ma la vediamo solo di sfuggita, perché dalla muta oscurità del passaggio scivoliamo nello smorto chiarore di una stanza poco lontana, sul pavimento della quale ecco un uomo, verosimilmente morto; dissolvenza al nero. Un’ouverture perfetta, che schizza con essenzialità, eleganza, raffinata perizia tecnica il cuore nero dell’opera cui stiamo per assistere. Qual è il problema? Il problema è che il piano sequenza in questione puzza di muffa a chilometri di distanza, e a pochi metri dallo schermo si avverte benissimo. Il regista, come ansioso di dimostrare la propria abilità, sfoggia un virtuosismo impeccabile e gelido, che lo induce ad accantonare una delle sue qualità meno appariscenti e più autentiche: l’abilità di preparare e attendere, la cura meticolosamente hitchcockiana nella costruzione di uno scrigno cinematografico nel quale personaggi, luoghi, eventi sfumano e le prospettive possono essere ribaltate (apparentemente, forse) da un gesto futile, uno sguardo obliquo, una frase lasciata a metà. Chabrol gioca le proprie carte (altrove) vincenti con insensata precipitazione, non solo a livello visivo: lo script è un canovaccio denso di sterili non – variazioni su stereotipi (l’ambiziosa, il cinico, l’indeciso, la determinata, la zia con un passato), gli eventi si susseguono con melodrammatica (im)precisione, le visioni dal passato non stonerebbero in un telefilm e i tentativi di inserire tratti ironici (la difficile campagna elettorale di Anne, le medicinali infedeltà di Gérard) diluiscono ulteriormente il già tiepido consommè. IL FIORE DEL MALE vellica senza pungere, incuriosisce senza turbare, costituisce un passo forse non falso, certo vacillante, nella filmografia di un artista che rimane un eccellente direttore d’attori (anche in assenza dei suoi feticci - a proposito dell’assenza della diletta Isabelle Huppert, il regista ha dichiarato che il loro rapporto artistico non sarebbe perfetto senza qualche sporadica infedeltà: l’importance d’être Chabrol -) e un regista capace di plasmare cristalli di genio (la sdoppiata conversazione notturna, tra riflessi e ombre, silenzi e bugie).
