TRAMA
Andy Sachs, fresca di college, trova lavoro come assistente presso l’ufficio di Miranda Priestly direttrice di “Runway”, una delle riviste di moda più importante del globo.
RECENSIONI
La commedia, specie se di successo, è uno dei generi più sottovalutati che ci sia. Eppure, mantenere un tono brillante senza scadere nella superficialità, assestare qualche battuta ad effetto, costruire personaggi memorabili in cui poter credere, captare un sentire contemporaneo e uscire da logiche giudicanti in cui gli eventi vengono forzati per indottrinare lo spettatore, è cosa più difficile di quanto sembri. Il Diavolo veste Prada è tutto questo: non un film sul mondo della moda (come ad esempio il pretenzioso e tutto sommato blando Prêt-à-porter di Robert Altman), ma una commedia ambientata nel mondo della moda. È quindi il genere a dominare, con tutti i cliché del classico percorso di formazione perfettamente cavalcati: la novizia alle prese con un mondo di cui non conosce le regole, la collega ostile, il consigliere schietto e simpatico, il capo luciferino, i crucci affettivi e la necessità di trovare la propria strada. Ma la scoppiettante sceneggiatura riesce anche a dire qualcosa sulla moda (il discorso di Miranda sulla solo apparente casualità con cui la giovane protagonista ha scelto un maglioncino ceruleo nel cestone delle offerte è formidabile) e sulle difficoltà di conciliare affetti e carriera. Se l’imperativo della “generazione x” era “diventa quello che sei”, con il nuovo millennio lo slogan si è evoluto in “diventa quello che vuoi (se puoi, ovviamente)”. Può sembrare banale, ma qualcuno che dica "non annullare te stesso per realizzare il sogno di qualcun altro", motivandolo, tra l'altro, senza che si riduca a mero slogan, è in realtà meno banale di quanto si pensi. Così come non lo è un finale dove la protagonista non è perdente (ehi, siamo pur sempre in America!) ma per vincere deve accettare più di un compromesso. Non realizza il “sogno”, ma ci prova, lasciando il certo per l’incerto. Inizia una carriera che potrebbe essere promettente, ma potrebbe anche non esserlo. L’ex-fidanzato si trasferisce a Boston mentre lei resta a New York. Forse torneranno insieme, ma non è così scontato. La conclusione è quindi meno rosea di quanto potrebbe sembrare e in linea con la caratterizzazione del personaggio. Quanto agli interpreti, Anne Hathaway, dinoccolata e dagli occhioni sgranati, incarna perfettamente le sembianze dell'americana provincialotta e Stanley Tucci riesce miracolosamente a non ridurre il suo personaggio a una macchietta gay; ma la vera anima del film è Meryl Streep. Pettinata come Crudelia de Mon e ispirata, a quanto si legge, ad Anna Wintour, leggendaria direttrice dell'edizione americana di "Vogue", sprizza carisma ad ogni inquadratura e riesce a trasformare la classica "cattiva" in un personaggio sfumato. Determinante, dato il soggetto, il contributo di abiti, ovviamente griffati, ed eleganti scenografie, così come la colonna sonora che allinea, non senza ruffianeria, alcune hit celeberrime. Poi qualcosa stride (la coppia di amici che fanno tanto i proletari poi lei riesce a esporre le sue fotografie in un’elegante galleria; o il biondo piacione che spunta in ogni dove con troppa frequenza). Ma trovare un riuscito prodotto dichiaratamente commerciale che non si affidi alla ricerca del principe azzurro come scopo nella vita, a guadagnare milioni di dollari come ricetta della felicità o a un cinismo di maniera, è un tonico non da poco. Per lo spirito, ma anche per il cinema, grazie alla regia attenta di David Frankel che riesce, imponendosi senza accentrare lo sguardo sul proprio operato, a mantenere il meccanismo oliato e comunicativo.
Si sorride, durante la visione del film, con moderazione. Streep è molto simpatica nel suo essere odiosa; Hathaway è bravina a far gli occhioni dolci; Tucci eccede con moderazione – se ci si passa il bisticcio – nel tratteggiare la sua macchietta, risultando per questo più credibile del mascherone che compare a un certo punto nel ruolo dell'ospite d'orrore – l'imitatore dello stilista Garavani, ci spiegano i bene informati.
Il film corre via rapido, ma verso dove? Ecco, qui non sapremmo rispondere. Non abbastanza cattivo nel tratteggiare un universo feroce di futilità e parassitismo miliardario (impresa nella quale neppure Altman è riuscito a cavare un ragno dal buco), si limita a un ironico sguardo di superficie, peraltro godibile. Troppo blando per fungere da parabola etica, esalta la capacità dell'eroina di rifiutare le lusinghe di un'affermazione professionale che chieda in cambio il sacrificio della lealtà; ma, contraddittoriamente, la volitiva ragazza esce da una rivista di moda per entrare in una pubblicazione impegnata, e non vediamo proprio dove sia la differenza quando stella polare del suo operato resti il successo: se tradì la collega – quasi per riflesso pavloviano – in nome di una carriera di cui non le importava, di cosa sarà capace d'ora in avanti? E infatti alla fine si incrociano, la giovane per il momento scampata all'inferno (e all’obbligo d'una mortuaria eleganza) e la maitresse dell'inferno medesimo – che in nome del successo s’è vista sfuggire l'ennesimo marito, poveretta: resterà sola, o meglio insieme alle figlie che sembrano le sorelline di Shining, nella sua villa di lacrime. Si incrociano e virtualmente si abbracciano, scambiandosi uno sguardo silenzioso e comprensivo, in fondo complice (infatti la vecchia maliarda ha raccomandato al collega la giovane scalpitante e ambiziosa): ammirazione per l'una, breve compassione per l'altra, strizzata d’occhio a entrambe. Non il Diavolo, di cui suggerisce il titolo, è stato immortalato dal film, ma solo una sua eccedenza caricaturale.
Ci sono due scene significative che denotano, al di là dei prevedibili flash contro il dominio dell’apparenza modaiola, la connivenza del regista col mondo che osserva, il parlarne la medesima lingua non per scorticarlo ma per passeggiarci a braccetto fra sorrisi e battute; ma illustrano anche quell'aura di rispetto e reverenziale timore che la moda - questa cattedrale di nulla - ispira, la sua subdola capacità seduttiva. Nella prima scena, la direttrice della rivista deve compiere una drammatica scelta fra due cinte quasi identiche. Al sorriso della giovane protagonista, la madama risponde con una tirata volta a dimostrare la centralità sociale del proprio lavoro. Invece di esplodere in una bella pernacchia all'indirizzo della Crudelia De Mon di turno, la reproba se ne sta muta e rassegnata, evidentemente soggiogata (e il rispettoso fremito del pubblico sembra farle compagnia) dal carisma autoritario della donna in corriera che le sta dinanzi. Nella seconda, la principiante mostra d'ignorare l'ortografia d'un cognome italiano, appartenente a un celebre stilista. Il pubblico ridacchia. Ma perché? Cosa c'è di comico nel non conoscere il nome d'un tizio che nessun beneficio ha arrecato all'umanità? Perché una segretaria neoassunta dovrebbe saper compitare i nomi degli interlocutori della sua datrice di lavoro? Il motivo della risatella della platea, temiamo, sta in ciò: il senso comune ritiene inammissibile per chiunque non conoscere l'identità di quel signore, e trova perciò umoristica l'ignoranza della ragazza. Tutto sommato, è una bella prova dell'insinuante potenza della moda. Se come film è appannato alquanto, Il Diavolo veste Prada rifulge nel documentare una cultura di massa che ha smesso ormai da tempo ogni senso di colpa e d’inferiorità, e si compiace della propria vacuità ammirando il bel mondo dorato e dando di gomito al vicino se compare la celebrità sartoriale, o se l’imprenditore dalla faccia lucidata chiama “tesoro” la virago dai candidi capelli.