Drammatico, Focus, Recensione

IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON

Titolo OriginaleThe Curious Case of Benjamin Button
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2008
Durata166'
Sceneggiatura
Tratto daDall'omonimo racconto di Francis Scott Fitzgerald
Fotografia

TRAMA

Dall’omonimo racconto di Francis Scott Fitzgerald: storia, amori e scomparsa di Benjamin Button, “nato ottantenne” e destinato a ringiovanire fino alla fine dei suoi giorni.

RECENSIONI

Non si intendono sollevare questioni “meritorie” di aderenza al racconto originale o, peggio, di resa di giustizia allo stesso. La fedeltà nei confronti della fonte non è un valore in sé e dal letterario al filmico c’è un abisso che rende ridicolo, crediamo, tirare conclusioni del tipo il libro è meglio del film o altri simili chiacchiericci da Bar Sport. E però iniziare con una sommaria analisi del passaggio inter-mediale può risultare utile per capire il film e, con tutta la modestia del caso, giudicarlo.

Intanto, le neanche venti paginette del racconto di Fitzgerald sono diventate centosessantasei minuti di pellicola: “solo uno spunto” si è scritto altrove, dal quale mutuare l’idea principale dell’invecchiamento/ringiovanimento e nulla più. Non esattamente. Perché se è vero che Roth (e Fincher) ha(nno) dovuto rimpinzare e plasmare l’asciuttissimo tessuto narrativo di riferimento, è altrettanto vero che non sono pochi gli elementi gelosamente preservati: lo scorrere della Storia che si incontra, in retromarcia, con la vita a rovescio di Benjamin, il riuscitissimo crescendo finale, con la regressione del protagonista culminante in una dissolvenza in nero psicosensoriale, ma soprattutto l’irrompere dello straordinario nell’ordinario, vero punto di forza del racconto e del film. Il Primo Mobile della vicenda, ben più che curioso, precipita sul fruitore come dato di fatto del quale non si forniscono, e neanche si richiedono, spiegazioni. Benjamin Button “è fatto così”, punto e basta. Succede, dunque, che ben presto ci si dimentica della straordinarietà della situazione, accettandola come dato diremmo quasi fenomenico prima che drammat(urg)ico, che innesca la componente tecnicamente melodrammatica (leggasi amore impossibile) che nella seconda metà del film diventa il film stesso. Se Fitzgerald colpiva il lettore di sorpresa e non gli dava il tempo di riflettere, trascinandolo nel racconto con una prosa quasi cesariana, Fincher ottiene la medesima normalizzazione del curioso caso in modo omologo sul piano stilistico ma sostanzialmente opposto sul fronte della gestione del tempo del racconto, con una sorta di effetto assuefazione coadiuvato da una ricercatissima compostezza formale: lo spettatore è accompagnato per mano, lungo tempi dilatati, ed entra nel film “abituandosi” alla vicenda e metabolizzando l’assurdità della stessa, con una messinscena controllatissima, che non colpisce né evoca alcunché di stra-ordinario, ma ammalia e intorpidisce (in senso buono) con armi gentili quali eleganza, classicità del campo/controcampo, fluidità e lentezza dei movimenti di macchina e quadri geometricamente ben composti che accarezzano la cartolina senza sposarne l’ordinarietà.

Se si accetta di farsi sedurre dal Curioso Caso di Benjamin Button si attraversano passaggi magari faticosi e qualche apparente vuoto/lungaggine ma col trascorrere dei minuti si comincia a mettere a fuoco e apprezzare la studiata architettura del film, edificato su una durata che a uno sguardo finale, d’insieme, non risulta affatto sovradimensionata, e si ha modo di venire ripagati della pazienza e dell’attenzione profusi con le monete dell’emozione (si veda la semplice, breve ma intensissima sequenza della progressiva “scomparsa” di Benjamin tra le braccia di Daisy) e di un generale ma non generico “piacere della visione”.

Fincher si conferma inoltre ottimo direttore di attori, con la Blanchett che dà la paga a tutti, Tilda Swinton che per quanto ci riguarda la segue a ruota e una Taraji P. Henson correttissima ma in odor di didascalia, mentre discorso a parte merita Brad Pitt. Truccato e (ottimamente) imbrigliato dalla CG per buona parte del film, Pitt è chiamato dalla sceneggiatura a un compito non facilissimo, quello cioè di interpretare un personaggio tragico assai insolito ma sostanzialmente privo di una sua precisa e definita psicologia. Difficile stabilire in che misura si tratti di un vero difetto di sceneggiatura o di una precisa scelta artistica, fatto sta che, alla pari del suo corrispondente fitzgeraldiano, Benjamin Button sembra lasciarsi agire più che agire in prima persona e non è dato conoscerne la personalità in modo sufficientemente approfondito. Se la cosa appare giustificabile con la sua condizione affatto peculiare, che lo rende interprete spesso spaesato e attonito della realtà, in ultima analisi indecifrabile, dall’altro stona un po’ con l’altra scelta di fondo del copione di Roth, quella di delegargli il ruolo di narratore omodiegetico, in luogo dell’eterodiegetico classico di Fitzgerald. Ci ritroviamo così una narrazione in prima persona (tutti i lunghi flashback che scandiscono il film sono inaugurati e intercalati dalla voce over di Pitt/Button, è lui a raccontare), persona protagonista delle vicende, che però poco dice e poco fa capire “di sé” con effetto vagamente straniante. E qualche svarione: l’episodio dell’investimento di Daisy, tutto giocato sulla dettagliata ricostruzione (ancora in voice over) di tragiche coincidenze, presuppone, ingiustificatamente, la momentanea onniscienza di Button narratore.

Prima di chiudere, mi sembrano doverose alcune, pur necessariamente frettolose e insufficienti, considerazioni sull’autorialità di David Fincher, questione da sempre spinosa che Il Curioso Caso di Benjamin Button riapre a nuove ipotesi interpretative. Da Alien3 a Panic Room, le tracce più evidenti di riconoscibilità potevano essere ricercate sicuramente a livello tecnico/stilistico, con una certa estetica del virtuosismo cinematico tanto esibito ma così ben amalgamato al tessuto anche narrativo del film da diventare quasi un’etica e un’idea di cinema precisa e ben delineata; un’etica/estetica della quale Panic Room può considerarsi un epilogo/riepilogo esemplare e, specie col senno delle revisioni, davvero splendido. Anche a livello tematico, però, sebbene in maniera meno palese, è rintracciabile un filo rosso punteggiato dalla pessimistica cupezza delle atmosfere, dai finali dal respiro epico nella loro tragicità, da un certo, onnipresente disincanto postmoderno e da una tendenza, postmoderna anch’essa, a dialogare direttamente con lo spettatore e a trascinarlo ironicamente nell’universo finzionale e quasi nello stesso processo creativo delle opere, basti pensare agli inserti subliminali di Fight Club o a The Game tutto, vero manifesto teorico e, appunto, più spiccatamente autoriale di tutta questa prima fase. Poi è arrivato Zodiac. Film che stupì per come abiurava palesemente tutto il Fincher che fu con una (quasi) sistematica rinuncia al fuoco d’artificio visivo e per come tentava di evidenziare la propria composta maturità, quasi che la “perizia virtuosistica” del regista fosse un presupposto, un vezzo giovanile ormai pronto a cedere il passo a nuove, e più compassate, vie compositive. All’epoca mi parve una palla con momenti sublimi (tutta la sequenza di apertura, la feroce banalità degli omicidi e poco altro) ma Benjamin Button impone forse una re-visione, perché in sostanza potrebbe cominciare a delinearsi un percorso preciso da seguire con interesse: Il Curioso Caso, infatti, prosegue ed estremizza l’opera di prosciugamento della retorica della mostrazione/visione [salta all’occhio la sol(it)a taratura seppiata della fotografia, in opposizione ai colori lividi che caratterizzano tutta la parte che si svolge più o meno ai giorni nostri) con un’enunciazione che slalomeggia tra le possibili “marche”, il filo rosso tematico che non si spezza (ancora cupezza e disincanto, cfr. anche Zodiac) e infine un dichiarato piacere del raccontare una storia per il semplice gusto di farlo, storia significante (o insignificante, a seconda dei punti di vista) in sé, ma fondamentalmente priva di un vero senso preciso e univoco (cfr. ancora Zodiac). Non è un caso, credo, che la vecchia Daisy sul letto di morte chieda alla figlia di leggerle il diario di Benjamin (e quindi di raccontarci la storia) non tanto, dice, per capire bene cosa racconti ma “solo per ascoltare la voce” che racconta.

Benjamin Button percorre la vita a ritroso. Nasce vecchio e poi ringiovanisce, invertendo il processo di crescita che accomuna tutti gli esseri viventi. È un vecchio con la mente di un infante prima, e un lattante affetto da demenza senile poi. Il suo strano viaggio inizia a New Orleans nel giorno in cui finisce la Prima Guerra Mondiale e giunge, attraverso il ricordo della donna amata, fino alla contemporaneità, nell’imminenza dell’uragano Katrina. Quasi un secolo di Storia americana che però, a differenza di Forrest Gump, con cui Benjamin ha più di un’affinità (a partire dalla sceneggiatura di Eric Roth), resta più che altro uno sfondo, mai davvero determinante nella vita del protagonista. È invece sulle sue emozioni, sulle difficoltà nel vivere quotidianamente la diversità, sull’ineluttabilità con cui accetta un destino originale e complicato, che si sofferma lo script di Roth. La struttura del racconto non osa più di tanto, dall’andamento nidificato ma lineare per mezzo dell’intreccio di voci off (con qualche eccesso di enfasi), alla scansione dei passaggi chiave (la fitta successione di lutti e incontri), fino all’esaltazione del grande amore, quanto mai epico e struggente. Potrebbe apparire superficiale il modo in cui la materia narrativa è trattata, invece il tono si mantiene miracolosamente leggero, rendendo lo spettatore testimone di una favola che tratta con apprezzabile misura il tema universale dell’esistenza. Si parla di occasioni perdute, opportunità colte, scherzi del destino, uggiose malinconie, grandi trasporti, memorie tramandate. Insomma, è la vita in tutte le sue sfaccettature, ordinarie eppure eccezionali proprio perché uniche, ad essere protagonista del film, tratto da un racconto breve di Francis Scott Fitzgerald. Partire dalla fine non cambia nulla nel concreto, come si è nati si deve morire, ma consente di arrivare con maggiore consapevolezza all’approssimarsi della morte, quando sarà evidente, e non solo probabile, che il divario tra corpo e mente diventerà incolmabile. È allora che il tempo dei bilanci diventerà sempre più inesorabile e il peso della memoria ancora più schiacciante. David Fincher modera la visionarietà che lo contraddistingue a favore della potenza del racconto, che parte abbastanza in sordina per poi crescere gradualmente, insieme al sentire sempre più dolente dei personaggi. Impeccabile la confezione, anch’essa assai convenzionale ma assolutamente funzionale, dalla fotografia anticata di Claudio Miranda al commento sonoro, toccante e piacevolmente ricattatorio, di Alexandre Desplat. Il resto lo fanno il cast e gli addetti al trucco, davvero basilare per la riuscita del film. Brad Pitt attraversa in modo credibile tutte le età imposte dal ruolo, giocando con efficacia la carta della sottrazione; Cate Blanchett è presenza sempre luminosa e Tilda Swinton conferma il suo carisma di donna fuori da ogni schema e classificazione (tra l’altro è interprete di uno degli episodi più riusciti). Quanto a trucco ed effetti speciali, la loro forza è nell’assoluta naturalezza con cui rendono realistici i cambiamenti fisici dei personaggi nell’implacabile fluire del tempo.

Il curioso caso di Benjamin Button (d’ora in poi BB) è un film straordinariamente interessante, ma, ancora una volta, come capitolo di una filmografia che si presta come pochissime altre nel cinema americano contemporaneo, ad un’analisi, a una trattazione, a una letteratura: la saga critica di David Fincher, regista per la seconda volta consecutiva migliore del suo film, continua.
E’ probabile che BB, film ineditamente lirico, che attesta una nuova attitudine contemplativa da parte del suo artefice, consacri definitivamente, anche agli occhi dell’estabilishment, e non solo a quelli della critica (soprattutto europea), Fincher grande regista, ma è vero anche che non dissipa le perplessità che si erano addensate all’orizzonte della sua produzione all’indomani del deludente Zodiac.
Dopo film spiccatamente personali e singolari, Fincher sembra oggi approdare a un cinema eminentemente popolare (che non vuol dire commerciale), pur mantenendo ferma la sua marca artistica. In questa oscillazione tra tenace autorialismo e tentazioni classiciste (hollywoodiane?) sembra risiedere, oggi, il nocciolo della questione, disputando in questa occasione di un film freddo, complesso e ragionato da un lato, ma accademico, farraginoso e scollato dall’altro, e che, in ogni caso, poco conserva della splendente secchezza delle opere precedenti a Zodiac. I primi film del regista erano riusciti a creare percorsi complessi e densi, sciarade argutissime, condendoli di ossessioni contagiose e immergendoli in atmosfere peculiari e perciò riconoscibili, facendo capo a un’impronta stilistica assolutamente pregnante che parlava, attraverso l’immagine, delle nevrosi contemporanee dell’individuo e del rapporto tra questo e una società sempre più alienata e inafferrabile, ma senza impelagarsi, come negli ultimi due lavori, in un confronto diretto ed esibito con queste tematiche e le relative, conseguenti ponderazioni. Sia Zodiac che BB, invece, sembrano opere coattivamente e disperatamente protese a riscattare l'eroe fincheriano dal campo del puro, mostrato agire per contaminarlo con il virus dell’ingombrante riflessione. In questo senso la loro strabordante durata la dice chiara derivando, a ben guardare, proprio dalla concessione fatta ai personaggi di riflettere (su se stessi, su quanto li circonda): ragionare sulle circostanze richiede tempo e Fincher sembra davvero propenso a concederlo; ne guadagna la tematica in chiarezza argomentativa, ne perde il film in coerenza stilistica. Al saldo di Panic room, tutto sommato, rimanevano le increspature che affioravano nel finale di un esercizio di virtuosismo, la complessità dei personaggi che si affacciava tramite pochi e illuminanti tratti contraddittori, incrinando in extremis l’apparente superfici-e/alità del film, come a rimandare ad un altrove impossibile da inscatolare nell’oggetto-film le infinite possibilità alle quali si aprono storia e personaggi. E se Zodiac, vero e proprio film-passaggio, a queste possibilità si immolava, frastornato dal proliferare di potenziali storie, BB sotto la scorza dello straordinario si consacra all’universale e all’ordinario, vera e propria anfora stracolma di esperienze che, all’osso, non possono che essere comuni, schema - poi adornato - che riassume archetipi intimamente umani. BB è un film per il pubblico, dichiarazione d’amore per la narrazione che predilige all’aridità di storie (digerite, assimilate, già date) della cosiddetta post-modernità, il respiro della classicità, quel gusto del raccontare su cui Pelleschi si sofferma in chiusura di recensione. Un atto di fiducia che pare radicale, una volta associata al termine racconto la qualifica di formazione: a partire dalla descrizione di diversi momenti di iniziazione (alla vita, alla sessualità, al lavoro, al vizio, all’amore) il film mappa temi esistenziali e universali, affronta il concetto di diversità, la ronde dei rapporti interpersonali e degli affetti familiari, l’osmosi tra uomo e ambiente sociale e, soprattutto, l’incombere permanente e ineluttabile della morte, del gioco imprevedibile del caso. Il discorso, che sgorghi dalle pagine del diario di Benjamin lette da Caroline o dalla narrazione orale (l’incipit dedicato all’uomo che fabbricava orologi), ha i limiti del racconto, della realtà rielaborata dal ricordo, rimasticata e restituita: l’approssimazione dei personaggi a macchiette, le personalità ridotte ad esaustivi esempi, icone che si fanno snodo/specchio di una weltanschauung in fieri, le atmosfere tratteggiate con il gusto generico della stilizzazione (si veda come emblema la cornice cartolinesca che avvolge gli anelati momenti di coppia), la lancinante semplicità dell’apparato simbolico, vicina al melò più sfacciato (il colibrì, l’orologio, l’omaggio finale alle vittime dell’uragano Katrina). L’universalità, la mediazione di un protagonista freddo, nel senso di colmabile dal sentire dello spettatore - contenitore emotivo prima che personaggio tout court -, l’incanto arcaico della narrazione: sono i canali entro i quali si sviluppa questo percorso di formazione, il cui approdo è semplicemente una visione del mondo - mutuata dal sovrapporsi di infanzia e vecchiaia nei primi anni di vita di Benjamin e rappresa nelle frequenti massime dal retrogusto funereo che ciclicamente si presentano nel film -, quello sguardo ottimista che segue paradossalmente la totale rassegnazione, il memento mori che impone l’amore per l’attimo, per i piccoli gesti, il buonismo dopo la disillusione, l’attesa del buio esorcizzata con cuore umanista.

La nuova classicità fincheriana sembra, però, penalizzare notevolmente la peculiarità del suo sguardo e riattarlo; in passato l'immagine dei film del regista era figlia di una sua forte idea della sostanza e delle modalità di rappresentazione (il mondo proposto dai film di Fincher è stato sempre il mondo di Fincher), in BB la messa in scena sembra rispondere a un’idea e appartenere a un immaginario meno personali e, in qualche modo, presi in prestito; mai come stavolta è possibile individuare nel tessuto del suo lavoro (tematico ed estetico) riferimenti a universi registici “altri”, in alcuni casi come accenni ed echi, in altri pesantemente significativi. La parola Zemeckis ci sorge al labbro per il dato narrativo (la cavalcata esistenziale di Button e quella di Forrest Gump si richiamano moltissimo – provengono dalla stessa penna, quella di Eric Roth -), per l’ossessione del Tempo (quei fulmini…) e, soprattutto, per l’uso “invisibile” degli effetti speciali, utilizzati in chiave squisitamente narrativa. Al di là degli sparsi fellinismi (lo splendido episodio dell’albergo russo) e, accidenti, chiare folate burtoniane (quello di Big Fish, felliniano anch’esso), un altro fortissimo richiamo è quello all’opera del regista francese Jeunet (strana coincidenza – ma neanche tanto -: entrambi hanno diretto un episodio della saga di Alien): basti pensare a uno dei momenti più suggestivi del film, il già citato episodio dell’orologiaio cieco in cui il passato prossimo, virato in seppia, diventa fiaba istantanea, il racconto di esso assumendo la polvere della leggenda; ancora: la presentazione di un’affollata galleria di personaggi, a volte meglio delineati, a tratti soltanto accumulati; ancora: il cambio di registro visivo (il passaggio presente/passato con la differente taratura della fotografia); ancora: quel battere sull'elemento del Caso cui facevamo cenno (lo stesso vecchietto che racconta dei fulmini, atti di Dio che lo colpiscono sette volte, è una creatura profondamente jeunetiana), in particolare nell’episodio esemplare del concatenarsi di circostanze che portano all'investimento della Blanchett, rifacendosi a una logica narrativa che Jeunet ha già presentato, con altra coesione, nel tanto bistrattato (non si è mai capito perché) Amelie e nel successivo, maturo e sottovalutatissimo Una lunga domenica di passioni, che Fincher ha senz’altro visto e dal quale raccoglie elementi e suggestioni a piene mani (l'incongruenza che Pelleschi sottolinea nel suo pezzo, relativa alla onniscienza di tale narrazione potrebbe essere solo apparente: Button probabilmente sta inventando la girandola casuale di eventi, premendogli di affermare un principio: quello del gioco delle fatalità sempre in agguato).

Un accenno finale al modo in cui Fincher lavora sull’immagine dell’interprete del protagonista (un suo feticcio: Brad Pitt, attore di espressività contenuta e mai debordante, in tal senso perfetta figura fincheriana): il suo corpo è un elemento extratestuale di rilievo fortissimo, che segna il percorso dell’attenzione spettatoriale in modo decisivo: pur avendolo di fronte fin dall’inizio della pellicola, lo spettatore attende, consciamente o inconsciamente, l’apparizione di Brad Pitt per come di fatto è. Il momento in cui ciò avviene è reso genialmente dal regista, che ne esalta la bellezza, attraverso mise palesemente studiate, che richiamano l’effigie cristallizzata nell’immaginario della platea, quella del Pitt strafigo, incarnazione di un’ideale/irraggiungibile bellezza maschile. Ma non finisce qui, perché quando Pitt apparirà giovanissimo, Fincher crea un corto circuito di rara sottigliezza: la giovinezza, propinata come diktat (cfr. La morte ti fa bella di Zemeckis) dalla fabbrica dei sogni, viene qui deformata dalla dimensione tragica degli accadimenti nella quale si esplicita. La giovinezza non è più sinonimo di Bellezza, è una maledizione: se Pitt da vecchio non è un mostro, da diciottenne di fatto lo diventa[1]. Questa ci pare l’inversione più interessante (e, finalmente, fincheriana, perché operata con l’ausilio del solo dato dell’immagine, senza sottotesti di sorta) del film all’interno del canone classico al quale il regista si richiama.
Contraltare a questa iconizzazione del corpo propria della dimensione eterea del racconto è l’insistenza della mdp sulla fisicità devastata di Daisy morente, l’insostenibilità della sua sofferenza, l’eloquio faticoso, la confusione della mente: se nella narrazione di Benjamin il pubblico esperisce le tappe di una vita in ultima istanza qualunque e il cinema accolla su di sé il carattere del mito, ogni ritorno al presente di Daisy risveglia lo spettatore dall’incantesimo cinematografico (alienazione di per sé già cupa) per ribadire la tangibilità della malattia, l’ineluttabilità della morte, in una cornice in cui regna, per differenza, la fisicità del dolore rispetto alla sua evocazione nel racconto.

[1] Potrebbe apparire piuttosto incoerente un percorso all'inverso che preveda un neonato vecchio che cresce all'incontrario e muore di nuovo neonato (effettivo). Ma è un’incoerenza (se così vogliamo definirla) cercata e voluta (per ragioni che possono essere di pura scrittura o squisitamente realizzative) visto che tale elemento contravviene al lineare percorso all’inverso previsto da Fitzgerald (il protagonista del racconto nasce vecchio - e adulto, fisicamente e mentalmente - e muore bebè).

Luca Pacilio & Giulio Sangiorgio

Togliamoci la spina dal fianco, soprattutto considerato che chi scrive ha molto amato Zodiac. Opera ambiziosa e fallimentare (priva, ahimè, della gloria di certi fallimenti perché esteticamente pigra), intrisa di un’alquanto stucchevole leggiadria “baricchiana” e immersa in una discutibile fotografia seppiata e pulviscolare, ovattante più che ovattata, Il curioso caso di Benjamin Button vive di una regia elegantemente gessosa con maldestri squilibri kitsch (ad esempio la sequenza à la Jeunet dell’incidente che stronca la carriera di ballerina di Daisy, ridondante e fuori tono, nonché l’incipit con la storia dell’orologiaio cieco, un cul-de-sac narrativo risolto in mero artificio virtuosistico) che cerca di esplorare l’infinito dell’esistenza imperniato nel loop di nascita, amore e morte. Nel mood della rappresentazione si aspira alla complessa leggerezza del volo del metaforico colibrì, le cui ali disegnano un otto rovesciato, simbolo dell’infinito appunto. Ma se il cuore di quest’infinito, l’idillio amoroso nel fugace e prezioso momento della contemporaneità di età e identico sentire, si cristallizza nella brutta sequenza della vita di coppia nell’appartamentino due-camere-e-un-materasso sulle voci beatlesiane di Twist and shout, beh, c’è qualcosa che non va.
Nel racconto in flashback di una vita che scorre fisicamente a ritroso si affastellano eventi poco incidenti o del tutto arbitrari, si delinea il quadro di una vita più che ordinaria, depurata di ogni vera tragedia, di qualsiasi asprezza, di ogni mistero (Button, nato diverso, adottato da una donna di colore a New Orleans e cresciuto in una casa di riposo, sembra non soffrire mai di alcuna discriminazione o esclusione da parte del mondo circostante né di alcuna perplessità sulla propria identità; in più, la frattura col padre naturale che l’aveva abbandonato è presto sanata senza colpo ferire). Quella tragedia, quell’asprezza e quel mistero che si affacciano troppo tardi, quando Benjamin Button invecchia in un bambino che non riesce a reggere il peso del tempo (e del suo ricordo) smarrendone senso e orientamento. Nello strazio quieto di Benjamin neonato che chiude gli occhi tra le braccia dell’amante/amica/madre e svanisce c’è la nota che Fincher non riesce mai a suonare per tutto il film (così come le deboli aperture umoristiche e/o grottesche dimostrano la sua difficoltà nel maneggiare lo strumento dell’ironia)[1]. E l’arte dello storytelling, innestata abbastanza pretestuosamente in un cocente e recentissimo passato (l’uragano Katrina che flagella New Orleans mentre Daisy sul suo letto di morte si fa leggere dalla figlia il diario di Benjamin), oltre ad articolarsi in una rielaborazione frigidamente fantasiosa del vissuto (quello che vediamo potrebbe anche essere solo frutto dell’immaginazione fiabesca e mistificatrice di Benjamin) popolata di figurine monodimensionali, si affida troppo alla voce narrante di Benjamin, invadente e sentenziosa.
Quanto ai due protagonisti, la Blanchett infonde vita e luminosità con la solita grazia che le si riconosce a un personaggio femminile abbastanza mal scritto (più efficace nella vecchiaia) mentre quella di Pitt più che una interpretazione (catatonica, e anche giustamente perché in linea con la psicologia basica del personaggio) è una presenza iconografica, la bellezza universalmente riconosciuta da svelare strato dopo strato di trucco digitale e rughe siliconate condannata però a un implacabile dissolvimento, un corpo da riempire di eventuali emozioni o riflessioni altrui, portatore di una filosofia minima e vagamente ottusa, come sembrano indicare i suoi occhi spenti e opachi nel momento di maggiore splendore giovanile. E giusto questa ottusità dello sguardo (sull’esistenza, sulla Storia), che si accende di una scintilla di vera comprensione solo nelle pupille dilatate del neonato e morente Benjamin, mi è sembrata l’unico aspetto veramente interessante del film, risolto però nel suo principale limite perché convertito in una messinscena anonima (al contrario di quel che accadeva ad esempio in Zodiac, indagine senza sbocchi innervata per potenza di regia del senso tragico dell’irrisolto e di una Storia che scorreva sotterranea, incendiaria e incomprensibile).
Il curioso caso di Benjamin Button è uno sguardo fisso su un tramonto al rallentatore che cerca il sublime (o il dolore dello svanire) senza trovarlo.

[1] Affinità e rimandi: più che al bellissimo e ben più stratificato Forrest Gump zemeckisiano (riferimento scontato ma doveroso: la penna dello sceneggiatore è la stessa e le analogie sono evidenti ma la Storia in BB è solo una quinta cartonata, un vago rumore di fondo), il mio pensiero è andato invece a due opere (poco acclamate da pubblico e critica) di un altro grande regista che ha lavorato sul Tempo, Francis Ford Coppola, il bizzarro Jack e il magnifico Un’altra giovinezza, due riflessioni lancinanti (e poco fortunate, nonostante si muovessero su binari espressivo-narrativi accessibili a un largo pubblico) sull’attimo e l’eterno, il carpe diem e la danse macabre.

Fiaba morale intrisa di malinconia fin dalla prima scena che, nonostante i sipari comici o “storici” alla Eric Roth (sceneggiatore, quello di Forrest Gump), si trasforma in dramma esistenziale che stringe il cuore. Più all’insegna della Morte che dell’Amore, sorta di Piccolo Grande Uomo rivisitato, la pellicola non rincorre la metafisica di Un'Altra Giovinezza ma il lirismo e la commozione, senza essere per questo ricattatoria come Jack. Come tutte le pellicole di Fincher, ha implicazioni filosofiche, morali e riguardano il percorso vitale all’incontrario: di solito cupo e nichilista, stavolta il regista ancora la propria visione pessimista su di un personaggio buono e tranquillo cantandone, più che la “miglior vita” passando da vecchiaia a giovinezza come Mark Twain (vedi uno dei racconti pubblicato ne “L’età del Jazz”, 1922), la preziosità delle esperienze a continuo contatto con la Morte. Crescere in un ospizio, ad esempio, dove gli esseri umani si staccano dalle incombenze della Vita e trasmettono la propria esperienza, dona una saggezza “diversa”, anche nell’abituarsi subito alla loro perdita. La storia d’amore è molto romantica e senza facili scappatoie edulcorate, come se Harry ti Presento Sally iscrivesse nel Dna della vita le difficoltà per due cuori di incontrarsi. Fotografia vintage, notevoli effetti speciali (il volto invecchiato di Pitt è stato “filmato” su di un altro corpo, più mingherlino) e buona ricostruzione storica. Peccato per quel “colpo di scena” nel finale in cui Benjamin decide di abbandonare la famiglia, mal motivato dagli autori, anche perché in netto contrasto con tutti i valori fin lì sciorinati: il rispetto per e il potenziale del diverso, l’amore oltre le differenze. Anche se uscito dopo, è precedente l’altro progetto di Brad Pitt (ne è produttore esecutivo) Un Amore all'Improvviso, dove love-story fra Vita Morte e fantasy crea simili incroci: padre putativo di entrambe le pellicole è la commedia di Balderston alla base di La Strana Realtà di Peter Standish (Frank Lloyd, 1933).