TRAMA
Inghilterra, fine Ottocento. La piccola Sophie lavora nel negozio di cappelli appartenuto al padre deceduto e viene tiranneggiata dalla madre a caccia di nuovi mariti. Casualmente, incontra il bellissimo mago Hawl, in fuga dagli scagnozzi della perfida strega delle terre desolate. Quest’ultima, mossa da invidia, trasforma Sophie in una vecchietta novantenne. La claudicante nonnina si mette alla ricerca del famigerato castello errante di Howl, l’unico in grado di liberarla dall’incantesimo. Ma sarà il potere dell’amore a farle riassumere l’antico sembiante e a far ravvedere la regina guerrafondaia.
RECENSIONI
Dopo le vette toccate con il suo capolavoro (La città incantata), il grande disegnatore giapponese dal tratto inconfondibile si sposta, o meglio, torna nella propria Europa immaginaria, dopo aver reinventato l’Italia del Ventennio in Kurenai no buta (Porco Rosso). Questa volta, l’oggetto della propria re-visione è l’Inghilterra di fine Ottocento.
Partendo da un racconto di una misconosciuta scrittrice inglese (Diana Wynne Jones, forse la J. K. Rowling fin de siècle), Miyazaki declina la “realtà” vittoriana secondo i principi cardine della propria visione e la popola dei personaggi che fanno oramai parte del suo coerente mondo poetico: vecchine intraprendenti, ragazzi ambigui e fascinosi, nemici a tutto tondo che cedono al volere del “buono” palesando le proprie debolezze, teneri e buffi animaletti ed “elementi” antropomorfizzati dall’evidente valore simbolico (il fuoco parlante, primo motore immobile del castello errante di Howl, nonché fiamma amorosa onnipotente). Il Male, come sempre, trova la sua ipostasi in esseri viscidi dal ventre molle o in anziane signore apparentemente perbene (come la proprietaria delle terme per spiriti di Sen to Chihiro no Kamikakushi): qui, gli scagnozzi gommosi della flaccida strega o la regina guerrafondaia che, per poter lanciare indisturbata bombe “intelligenti” sulla popolazione inerme, ha trasformato l’erede al trono pacifista in uno spaventapasseri.
Filtrando i luoghi comuni del viaggio nel regno della fantasia attraverso una lente deformante in grado di offuscarne o, per contro, irrigidirne i contorni, rovesciando alcuni di essi in nome di una fiducia smisurata, tutta orientale, nell’uomo e nel potere della saggezza di chiara ascendenza buddista (la vecchiaia non più età della debolezza e del declino ma della forza e di una riacquisizione di sé che fa il paio con la raggiunta consapevolezza e pace dei sensi), lo sguardo del genio nipponico non si perita di rispettare le regole del racconto fantastico innestando, nel ceppo proppiano, “germi” di pura e “anarchica” poesia visiva: il racconto, per questo, conosce imprevedibili deviazioni, in barba ai diktat delle categorie assolute del Tempo e dello Spazio - la seconda è disattesa diegeticamente con l’ubiquo castello di Howl, la prima viene incenerita dalla fiamma amorosa (nella scena che potremmo definire dell’archeomagia). L’amore, parallelamente, sospende l’incantesimo della protagonista facendole riassumere per brevi tratti, quasi seguendo le intermittenze del suo cuore, l’originario sembiante.
Una straordinaria riflessione sul Tempo, sulla perenne lotta intrapresa dall’uomo per sconfiggerlo e magico panegirico sull’amore, unico sentimento in grado di far tacere le bombe ed infrangere la barriera che separa l’uomo dalla Natura (si ascolti con attenzione la canzone che chiude, come sempre in Miyazaki, il film).
Il maestro Hayao Miyazaki parla un linguaggio universale in grado di superare qualsiasi confine e di raggiungere direttamente il cuore. Non ci sono trucchetti da sceneggiatore consumato o furbe trame per invischiare l'emotività dello spettatore, ma un semplice narrare toccando le corde dell'inconscio. La grande capacità di Miyazaki è di costruire un'impalcatura razionale imprescindibile, che consente un'istintiva immedesimazione, e di arricchire continuamente il racconto con dettagli capaci di aprirsi un varco in quel punto oscuro e ben difeso dove nascono le emozioni. Anche con "Il castello errante di Howl", passato frettolosamente nella bolgia di titoli presentati al Festival di Venezia, il miracolo si compie. Lo spunto è un romanzo fantasy per ragazzi, scritto dall'inglese Diana Wynne Jones, ma l'epoca vittoriana e l'ambientazione europea non limitano in alcun modo la creatività del regista che riesce, con la consueta sensibilità, a comunicare un punto di vista prezioso. Come ne "La città incantata", la protagonista è una ragazza che deve affrontare una sorta di percorso iniziatico per trovare se stessa e il proprio posto nel mondo; e come in tutte le sue opere, bene e male viaggiano a braccetto, facce intercambiabili di un'unica medaglia. Attraverso una leggerezza priva di giudizio e di fastidiosi intenti educativi, Miyazaki racconta le difficoltà della vecchiaia, la necessità di credere in se stessi e nelle proprie capacità, l'assurdità della guerra, il potere salvifico dell'amore. Nella visione del regista nulla è mai come sembra e ogni incontro può celare un'opportunità o un pericolo. Il suo film è un invito a non fermarsi all'apparenza delle cose, ma a buttarsi senza rete nell'intrico della vita, imparando ad accettare ciò che la vita stessa può offrire. Senza rassegnazione, ma lottando per acquisire una consapevolezza il più delle volte risolutiva. La profondità dei temi trattati passa attraverso una forma superlativa, in cui la tecnica è al servizio del racconto. Perfettamente caratterizzati i personaggi, mai banali nell'ambivalenza che li contraddistingue, ed equilibrata la narrazione, a volte cupa, altre volte rassicurante, ma sempre dosata con grazia e acume. Molte le sequenze da mozzare il fiato: dalla passeggiata iniziale nel cielo, con cui Howl salva la giovane Sophie dai demoni, alla trovata geniale di una porta in grado di aprirsi ogni volta su paesaggi diversi. Dando concretezza ai sogni, il maestro Miyazaki costruisce un'altra opera importante, in cui il cartone animato incontra la poesia e diventa emozione.
I significati sono meno complessi di altri capolavori di Miyazaki, ma il maestro dell’anime giapponese compensa stravolgendo la fiaba di Diana Wynne Jones con un intreccio intricato e piegato al suo universo bizzarro, per uno spettacolo meraviglioso in un mondo vittoriano “altrove”, che ricorda la sua serie televisiva italiana “Il fiuto di Sherlock Holmes” o quella in costume di cui era designer, “Anna dai capelli rossi”. Le figure e i temi sono tipici di Miyazaki, fra apparenze che ingannano, macchine volanti e il motivo principale di una protagonista solitaria che deve maturare accettando l’imbruttimento del corpo, per scoprire la bellezza interiore: è ammirevole il modo in cui il regista gioca con i dettagli del ringiovanimento spirituale della “vecchia” cappellaia per sottolinearne l’evoluzione. Le opere precedenti di Miyazaki cui più la presente assomiglia sono Laputa il Castello nel Cielo (per le case volanti e le “nonne” protagoniste) e Porco Rosso (per l’ambientazione antico/europea). Lasciano a bocca aperta, come sempre, le mimiche facciali buffissime e non, le invenzioni fantastiche, l’afflato poetico ed avventuroso in cui si è proiettati, le tavolozze di colori su cui si muovono i personaggi. E il racconto si chiude con un affascinante brano surreale.