TRAMA
Jeannette è ormai adulta e sta per sposarsi, ma non ha smesso di subire i contraccolpi di un’infanzia trascorsa con due genitori straordinari e terribili.
RECENSIONI
Tratto dall’autobiografia della giornalista americana Jeannette Walls e girato dallo sceneggiatore e regista indipendente Destin Daniel Cretton, Il castello di vetro si aggiunge ad un lungo elenco di film che raccontano infanzie singolari e difficili con genitori folli ed anticonformisti, ma anche irresponsabili e imbarazzanti. Tra i più recenti, La famiglia Fang e Captain Fantastic nei quali, come in questo caso, i genitori trasformano in battaglie ideologiche contro la società omologata le proprie inadeguatezze personali e genitoriali. Dai ricordi della Walls escono genitori che lasciano i figli digiuni per intere giornate, che li costringono a vivere da nomadi cambiando continuamente casa e ad adattarsi ad alloggi di fortuna, che di fatto li isolano da chiunque sia esterno al nucleo famigliare. Genitori contrari alla scuola, perché si impara dalla vita vera, ed alle banali norme di sicurezza, perché si diventa forti quando si viene messi alla prova. Pittrice la madre, ingegnere per diletto il padre. Una donna debole che segue per tutta la vita un uomo carismatico, inconcludente, alcolizzato. Chi contesta questo stile di vita è uno sciocco, limitato; non ha la “visione”, non sa coltivare sogni. Lo annunciano le prime parole del film, che commiserano e ridicolizzano come pazzi i ricchi che vivono nelle città, perdendosi la vera bellezza della vita. Il film in parte sembra sposare queste tesi, descrivendone il fascino, in parte mette in evidenza in modo chiaro il prezzo che i giovanissimi figli si trovano costretti a pagare per la loro messa in pratica. La narrazione segue su un doppio binario la protagonista adulta, che ancora si confronta con la diversità e la problematicità della sua famiglia, e la bambina, poi adolescente, sballottata per il paese dai guai e dalle leggerezze del padre. Non semplici flashback ma una vera narrazione parallela nella quale la figlia adulta è costantemente messa a confronto con se stessa da piccola, vitale e quasi sempre in simbiosi con un padre fuori dal comune. La bambina Jeannette, nonostante il caos della sua vita, può ammirare il cielo con un padre affettuoso e sognatore, che le regala addirittura una stella tutta sua - benché poi si scopra che questo è il suo espediente per fare regali ai figli in mancanza di denaro. Sempre lui la getta in acqua senza pensarci due volte per insegnarle a nuotare e ad affrontare le prove difficili, le trasmette il coraggio contro i demoni da cui ogni individuo viene minacciato; e poi farebbe qualunque cosa per lei, persino smettere di bere - forse. Questo rapporto privilegiato tra padre e figlia, l’unica che sembra credere ancora in lui, pronta a rinunciare a tutto pur di dargli ancora fiducia, tiene a galla ma anche impantanati entrambi e rappresenta il cuore emotivo del film, altrimenti un po’ freddo. Colpa anche della regia poco incisiva, soprattutto quando il tasso di drammaticità va aumentando.
Quando, nella seconda parte della pellicola, la situazione familiare degenera costringendo i figli a prove sempre più estreme - con i genitori che si insultano e lottano davanti ai loro occhi, incuranti della sorellina più piccola - si rimane paradossalmente più indifferenti. Nel crescente rovesciamento di ruoli tra genitori e figli si arriva al punto della presa di coscienza, addirittura all’invito, rivolto alla madre, a lasciare un marito che non cambierà mai. Qualcosa, però, cinematograficamente, non funziona, forse a questo punto i figli precocemente maturi non risultano verosimili. La perdita di fiducia nei confronti di un genitore, la scelta di non affidarsi più a lui, dovrebbero saper generare nello spettatore ben altro coinvolgimento. Mentre nelle scene che rievocano il passato i ragazzi diventano sempre più insofferenti all’esistenza bislacca imposta loro e determinati a salvare almeno se stessi, costruendosi da soli una vita propria, la rappresentazione del presente è estremamente stereotipata e poco vibrante. Il padre, da copione, rifiuta con decisione il fidanzato “normale” ed alto borghese della figlia, provando a convincerla che non è adatto a lei - “Sei una Walls, sei nata per cambiare il mondo” -, che lei è meglio di quell’uomo, meglio della rubrica di gossip che si è adattata a scrivere. Di fronte alla Jeannette adulta ingessata da acconciature sofisticate, collane ed abiti da signora, l’uomo rivendica la loro diversità come unico appiglio per giustificare la sua vita disastrata: “Noi non siamo come gli altri”. È troppo prevedibile anche il repentino cambiamento col quale la giovane donna, dopo aver deciso di tagliare platealmente i ponti con madre e padre, finisce per difendere quest’ultimo in pubblico, in una scena forzata e dimostrativa, davanti al marito ed ai suoi importantissimi clienti. Ricorda come il padre sia la persona più intelligente che conosca ed un grande sognatore: “Non cerca mai di sembrare quello che non è. E mi ha insegnato a fare lo stesso”. l dialogo finale con il padre, conciliante date le circostanze, assurge forzatamente a chiave di lettura di tutta la storia. Riconoscimento di errori, rimpianti, ma con una lettura soprattutto positiva. “Sono come te e ne sono felice”, afferma Jeannette, “Ci siamo divertiti”. Il castello di vetro non è mai stato costruito, ma si sono divertiti a progettarlo. La conclusione è fin troppo esplicita. Jeannette porta i capelli sciolti con facile simbolismo, è diventata free lance, vive in una residenza modesta e cucina patate bollite. Il marito è sparito dalla sua vita, lei frequenta la sua famiglia d’origine e si sente fortunata. Un finale non coraggioso, ma soprattutto ideologico: alla fine dei conti i ricchi sono sempre ipocriti, vuoti e materialisti. Il film, che all’inizio sembra quasi on the road, è accompagnato da canzoni country d’atmosfera con testi spesso didascalici. Anche grazie alle location la descrizione dell’infanzia risulta più coinvolgente di quella scontata e manichea dell’età adulta della protagonista. Peccato per gli attori, tutti efficaci: una Naomi Watts dimessa che asseconda il suo ruolo, un Woody Harrelson cui viene regalato un bel personaggio incisivo e sfaccettato, Brie Larson credibile in un contesto non action, l’ottimo cast dei bambini.
