TRAMA
Il Cartaio è un serial killer che sfida la polizia a videopoker su Internet; se vince uccide la sua vittima davanti a loro, in diretta tramite una webcam. Una poliziotta italiana ed un inglese si mettono sulle sue tracce.
RECENSIONI
Dario Argento è alla frutta: dopo le losche avvisaglie di NONHOSONNO lo conferma pienamente, inequivocabilmente IL CARTAIO. Si tratta di un tragico suicidio cinematografico, la resa di un (ex) regista che non ha (più) niente da dire/mostrare: l’autore di PROFONDO ROSSO e IL GATTO A NOVE CODE (echi di un passato lontano) ha deciso ormai di vivacchiare, nello specifico riducendosi allo schemino della caccia al serial killer. Esaurita da tempo la vena horror, il plot filmico [per la cronaca: presenta inquietanti assonanze con il romanzo MORTE INNATURALE di Patricia Cornwell, ed. Mondadori] risolve il suo incipit in maniera smaccatamente classica, proiettando lo spettatore dritto dentro una centrale di Polizia; qui si dipana la maggior parte dell’intrigo, scodellando in fin dei conti un giallo-enigma alla Christie dove indovinare il colpevole non è troppo difficile (e nemmeno troppo plausibile). Un maniaco high tech uccide attraverso Internet, seviziando le vittime in versione webcam. Peccato che questo bisogno di adeguarsi ai tempi non sia in realtà supportato da nessuna informazione pratica, neanche la più essenziale; la rete è un oggetto misterioso e tale rimane, l’ennesimo nascondiglio esoterico per il Male senza uno straccio di verosimiglianza tecnica (la spiegazione finale). L’affresco del ricettacolo di efferatezze, che Argento si impegna ad alimentare, può forse ingannare la sezione Spettacoli di qualche quotidiano locale, che non esiterà a sottolineare quanto questo film sia attuale. Ma io no: né prendo per buono l’archetipo della partita con la morte, sviluppato altrove e meglio da Ingmar Bergman in poi. I personaggi stentano a guadagnarsi tale definizione; essi calzano quieti stereotipi (dalla coppia di investigatori fino al ragazzo prodigio, passando per il questore e l’assassino), incapaci perlopiù di sollevare qualche particolare emozione. Li affossa definitivamente una sceneggiatura anonima, che procede per battute prevedibili (la tragedia nei passato dei buoni), qualunquiste (la quotidianità della centrale) o semplicemente normali (lunga parte della pellicola), comunque mai illuminanti. Come sempre Argento conferma il suo cattivo rapporto con gli attori (ma almeno non butta la figlia nella mischia): una Stefania Rocca conciata come Clarice Starling gironzola per questo film, recitando legnosa e scenicamente impacciata nelle scene frontali; si risolleva (parzialmente) durante gli attimi di tensione, il più azzeccato dei quali squarcia il sipario del secondo tempo. Liam Cunningham, forte della somiglianza con Jean Reno, è l’unico vero attore del mazzo (non a caso: straniero… senza malizia), anche se la sua figura non manca nessun appuntamento con la prevedibilità; Silvio Muccino è libero di fare il fighetto con una canna in bocca scatenando la sua devastante antipatia, Claudio Santamaria è davvero poca cosa. Dopo una pellicola canonica, con diversi svarioni (la storia d’amore tra i due investigatori) e pochi elementi distintivi (un medico legale in miniatura che pare scritto da Lynch), la soluzione si rivela farraginosa e insoddisfacente: per tirare le fila della vicenda la mente dell’autore stende su pellicola una consapevole confusione, un totale disinteresse per ciò che si sta girando, un vuoto d’idee come se ne vedono pochi. L’assassino è uno qualsiasi, il movente praticamente non esiste, tacendo l’ultima sequenza di disarmante imbecillità; quelli che difendevano strenuamente NONHOSONNO, e in generale il declino artistico di Dario Argento, riusciranno forse ad obiettare che la trama (come sempre) non conta, ma occorre guardare alle atmosfere, al sangue, al gore. Ma dove sono? Il fatto è che il regista qui fallisce anche in quella che è la sua specialità: destare raccapriccio, costringere lo spettatore a distogliere lo sguardo, comporre un delirio truculento. L’arte dell’ammazzamento, alla Argento per intenderci, viene assassinata in favore della sevizia formato web: difficile che stavolta se la bevano, anche i fan più accaniti. Thriller(ino) senza capo né coda al cui confronto anche un film di Natale come IN THE CUT fa una signora figura; ma nonostante tutto si vocifera (ancora) che Argento sia l’unico italiano tanto coraggioso da fare questo genere di film. Suvvia: è anche girato bene, se proprio vogliamo sindacare -il “maestro” sa tenere in mano la mdp- ma mi pare irrilevante ai fini del discorso. Rimane la sequenza di cui sopra, che costituisce la giuntura tra i due tempi ed esercita ottimamente la tecnica della sospensione, un paio di cadaveri costruiti da Sergio Stivaletti ed un’ulteriore, piccola soddisfazione: la truce uccisione del giovane Muccino, arpionato come un capretto sul lungotevere dopo un inseguimento che richiama il depalmiano OMICIDIO A LUCI ROSSE. Fin lì aveva pascolato per il film calzando la solita, odiosa macchietta: spietata ironia della s/morte? Chi, guardando filmacci a pretesa generazionale, non si era mai augurato la sua dipartita? L’ombra di un ghigno nella mediocrità generale.
Nonostante siano ormai tre lustri che Dario Argento non sforna un film degno di un "Re del brivido" di fama internazionale, le aspettative nei suoi confronti sono sempre alte. C'e' ogni volta la speranza di abbandonare le sicurezze della razionalita' per tuffarsi in un nuovo viaggio nella paura, fatto di una materia indefinita e impalpabile dove la tecnica e' al servizio di sussulti, raccapriccio ed emozione. Purtroppo "Il cartaio" e' l'ennesima smentita: non spaventa e lascia tutto sommato indifferenti, il che e' quanto di peggio si possa dire di un thriller "de paura", dove l'obiettivo primario dovrebbe essere incollare lo spettatore alla poltrona con gli occhi sgranati verso lo schermo. Tra i vari elementi che non funzionano, i piu' evidenti sono la mancanza di una storia realmente avvincente, e "in primis" sensata", e una regia intermittente, capace di curare alcuni aspetti, soprattutto tecnici, tralasciandone completamente altri (la direzione degli attori). Il plot prevede la sfida di un maniaco nei confronti della polizia attraverso partite di video-poker, dal cui esito dipende la sopravvivenza o meno delle vittime designate, e la sceneggiatura cerca di porre le basi per un confronto psicologico. Gli sviluppi, pero', virano presto nell'assurdo. Un conto e' infatti una partita "live", dove il bluff e' nell'aria e buona parte del risultato dipende anche dall'abilita' del giocatore; totalmente diverso, invece, un match con il computer, in cui vincere o perdere deriva esclusivamente dal premere un tasto e dalla fortuna. La ricerca di un giocatore "bravo" e il tifo da stadio dell'intero corpo di polizia non risultano quindi assolutamente giustificati dal racconto. Ma sono tanti i tasselli che non combaciano e le svolte narrative grossolane che alla luce della soluzione finale non trovano significato. Anche la messa in scena non convince e, soprattutto, non risulta mai credibile. I dialoghi gridano vendetta e prevedono un'essenzialita' da fumetto, con battute che vorrebbero essere esplicative ma suonano il piu' delle volte ridicole. Come la caratterizzazione dei personaggi, che sconta luoghi comuni e banalita' a go-go, dall'irlandese attaccato alla bottiglia, all'esperto di computer "nerd", passando per il trauma infantile della protagonista. La scarsa qualita' della recitazione e' una diretta conseguenza: Stefania Rocca, Silvio Muccino, Liam Cunningham, Claudio Santamaria, sono bravi attori e si impegnano come di consueto, ma i personaggi a cui danno vita sono privi di sfumature e non hanno la minima consistenza, con un effetto finale, amplificato dall'auto doppiaggio (il film e' stato girato in inglese pensando all'esportazione), stridente e grottesco. Pessimi e basta, invece, ma succede spesso nei film di Argento, i caratteristi. Grande assente, inoltre, l'effettaccio. Gli omicidi avvengono quasi sempre fuori scena e non ci sono varianti nuove o curiose a rinvigorire un iter (la partita a video-poker) che finisce per smorzare parecchio la tensione. Dal pasticcio finale si salvano la fotografia livida di Benoît Debie, il commento sonoro di Claudio Simonetti (comunque al minimo sindacale), i pochi dettagli gore nelle salme martoriate ideate da Sergio Stivaletti (anche se gratuiti) e alcuni momenti, come il montaggio serrato che accompagna i titoli di testa o l'agguato nella casa della protagonista. Per il resto calma piatta, per tacere della risibile sfida finale. Non resta quindi che aspettare la prossima opera del discontinuo autore, sperando che le alte aspettative trovino sfogo in un film davvero perturbante. O al limite divertente, come il precedente "Non ho sonno", talmente sgangherato da ispirare simpatia.
Non ci resta, quindi, che attendere ..