Recensione, Thriller

IL BUIO NELL’ANIMA

Titolo OriginaleThe Brave One
NazioneU.S.A./Australia
Anno Produzione2006
Genere
Durata120'
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Erica Bain vive a New York, città che racconta quotidianamente in un programma radiofonico. Un’aggressione le cambia la vita: il compagno viene ucciso e lei, uscita dal coma, vedrà la città con occhi diversi.

RECENSIONI

Come in quella di Stephen Frears, nella filmografia di Neil Jordan si possono distinguere due distinti filoni: quello meno altisonante, piuttosto compatto e riconoscibile, costituito dai film girati in patria (in Irlanda, nel suo caso - The miracle e The butcher boy rimangono di gran lunga i miei preferiti -) e quello delle grosse produzioni, anche hollywoodiane, più imprevedibile e discontinuo, a tratti molto interessante (i sottovalutati In dreams eFine di una storia -), oggetto a parte rimanendo il magniloquente Michael Collins che si pone nel perfetto mezzo dei due tracciati. The brave one riporta il regista negli USA e, complice la controversa tematica e la presenza di una Jodie Foster in grande spolvero, gli regala un eclatante successo al boxoffice. Il regista affronta il tema della vendetta privata prediligendo un registro intimo e battendo sul dato personale dell’evoluzione dello stato psicologico della protagonista, provata dalla terribile esperienza dell’aggressione subita e dell’omicidio del suo compagno. La narrazione segue dunque Erica Bain nel suo dolore e nella maturazione di un duplice sentimento: di paura da un lato (quella che non è dei deboli ma di tutti - sullo sfondo il Grande Terrore post 11 settembre, lo smarrimento collettivo -), d’impotenza dall’altro (l’alienante anticamera del dolore, la consapevolezza che l’atrocità subita si sia burocratizzata, l’impatto con la freddezza dell’istituzione in parte smentita dal successivo rapporto, d’amore tacito, con il responsabile delle indagini), sentimenti che, combinandosi perversamente con un bel po’ di paranoie in boccio, la conducono all’omicidio in serie.
The brave one è un film che non vibra mai, che pur pregiandosi di una confezione di prim’ordine (gli splendidi movimenti di macchina di Roussellot; la scelta opportuna delle dissolvenze incrociate; un uso acutamente diegetico della voce fuori campo – la protagonista monologa in radio -) non riesce a dare autentico spessore al personaggio centrale (che lo meriterebbe) rimanendo la sua figura piuttosto abbozzata, affidandosi la sua decodifica a qualche scena smaccatamente dimostrativa (il ritorno, in preda a confusione, all’ufficio di polizia, tanto per dirne una). Jordan, autore sempre molto attento alla scrittura, sembra in questo caso solo tentare di arricchire lo schema risaputo (il rapporto tra l’investigatore e Erica vuole evidentemente sparigliare le carte e ci regala la migliore scena del film, quella dell’intervista, autentica partita a scacchi in cui l’intrigo dà il meglio) ma alla resa dei conti appare svogliato e pronto a ripiegare nelle maglie del genere senza tentare mai di metterlo in discussione. Insomma, se la scorrettezza dell’assunto tematico è senza dubbio interessante (e il fatto che la vendicatrice ottenga quello che vuole senza pagarne il fio, in un rigurgito reazionario esplicito che descrive una situazione senza farne un manifesto, se inquieta lo spettatore garantista, nondimeno lo sorprende) d’altro canto questo si sviluppa, senza problematizzarsi mai, su binari narrativi a dir poco convenzionali e con un semplicismo a tratti avvilente (la violenza negli Stati Uniti è Il Tema – si scomoda persino Lawrence e le sue riflessioni sullo spirito assassino dell’uomo americano -). La protagonista, alle prese con un paradigmatico personaggio nel quale si muove con ogni agio (jordanamente androgino, tutto scatti e nervi) e sul quale pone la firma con l’amabile, leggero tremore marca “Foster”, ricopre il ruolo della vendicatrice con modalità che ricordano certi stilemi fumettistici (l’allure da vendicatore notturno, la divisa da killer, l’apparente invulnerabilità e inafferrabilità sono quelle di un supereroe: la scena del maquillage dopo l’omicidio è un chiaro “tornare nei panni di”). I motivi di interesse non mancano dunque: d’altro canto non è cosa da poco affrontare, da parte di un irlandese, in ambito statunitense (l’era Bronson pare preistorica), un discorso sanguinario di giustizia fai-da-te in cui, complice un poliziotto conscio della limitata capacità d’azione che la legalità gli riconosce, si legittima una strage seriale di delinquenti; in questo senso è davvero un peccato che il film, pur scegliendo, e non mollando fino alla fine, la via scomoda di un’etica a dir poco discutibile, rinunci poi ad approfondire adeguatamente il risvolto, accontentandosi di un piatto ricorso alle formule e di una rozza e un po’ insulsa rappresentazione del violento sottobosco newyorkese.