
TRAMA
Durante il boom economico degli anni Sessanta, l’edificio più alto d’Europa viene costruito nel prospero Nord Italia. All’altra estremità del paese, un gruppo di giovani speleologi esplora la grotta più profonda d’Europa nell’incontaminato entroterra calabrese. Si raggiunge, per la prima volta, il fondo dell’abisso del Bifurto, a 700 metri di profondità. L’avventura degli intrusi passa inosservata agli abitanti di un piccolo paese vicino, ma non al vecchio pastore dell’altopiano del Pollino la cui vita solitaria comincia ad intrecciarsi con il viaggio del gruppo.
RECENSIONI
Respiro vitale e congedo dall’esistenza si incontrano sull’orlo di un abisso geologico che lega presente e passato, fra i grandi silenzi e l’eco dei richiami, nella ricostruzione di un percorso esplorativo dove fiction e documentario si ibridano in una lunga, immersiva installazione: sul grande quadro mobile della natura, sulla tela dello schermo, quell’abisso, grotta, gola, è semplicemente buco, foro nella trama del tempo in cui pagine di storia passata bruciano per far luce sul cuore nascosto della terra.
Nel 1955 “Italia K2” raccontava l’impresa documentata l’anno precedente, quando, nella spedizione guidata da Ardito Desio, l’Italia conquistava la seconda vetta più alta del mondo nonché fra i così detti “ottomila” più insidiosi, traguardo fortemente voluto e celebrato come simbolo di rinascita all’indomani del dopoguerra. Nel 1961 Il Gruppo Speleologico piemontese si dirigeva invece verso una Calabria inesplorata, immergendosi alla scoperta di quei 683 metri sotto terra dell’Abisso del Bifurto o “Fossa del Lupo”, al tempo la seconda grotta più profonda del mondo, invertendo il vettore che puntava alle cime, delle montagne e dei grattacieli, in quegli anni di scalata economica in cui il Pirelli era fra gli edifici più alti d’Europa.
Oggi -nello stesso anno in cui Le sommet des dieux riporta al cinema l’omonimo manga sull’ascesa all’Everest e il sentimento della montagna- di quell’impresa gratuita e silenziosa riviviamo per la prima volta il passaggio dalla luce all’oscurità, il rito di ingresso in una dimensione remota, il sentimento ipogeo dello scomparire alla vista, abdicare alla superficie per esplorare il mistero della profondità, rovesciando il concetto di conquista nell’immersione, avvolti dalla roccia, di fronte a una scoperta progressiva che cambia la natura dello sguardo, che si dirige dove non vede e non sa: così la stessa regia si fa speleologica e scopre il percorso dell’attore che rivela immagini a se stesso e allo schermo.
Il buco è film di azione e contemplazione, di ritmo e lentezza, di movimento -da nord a sud, di vene che pulsano, di fiammelle in avvitamento che indicano la strada e si spengono come l’epoca che fu, dopo averla rievocata, della parabola di un pallone calciato fa i margini di uno strapiombo- un film di inafferrabile tattilità e strettissime ampiezze, un moto armonico di visioni, suoni e sensazioni tenuti insieme da un occhio nitido, attento, autentico, com’è quello di Michelangelo Frammartino.

Nel 1961, mentre la Milano del Boom celebra lo slancio verticale verso le «magnifiche sorti e progressive» erigendo grattacieli, un gruppo di speleologi si cala nel Sud più arcaico e profondo, e poi da lì ancora più un basso, nella grotta di Bifurto. E questa elementare, chiarissima contrapposizione – l’alto e il basso, in senso letterale e simbolico – contiene già una limpida dichiarazione di poetica: quello di Michelangelo Frammartino è un cinema che guarda in basso, non nei termini di una ritrita e bucolica “poesia delle piccole cose”, ma per sondare paesaggi che non ci soffermeremmo mai a guardare, immagini che, private come sono dell’elemento umano, ci apparirebbero “vuote”. Succede infatti, in Il buco, che gli speleologi proferiscano raramente parola, e che sia riservato a loro lo stesso trattamento della nuda roccia in cui si calano. Corollario: il cinema di Frammartino è anche autenticamente antispecista, nella misura in cui, senza sbraiti né sussulti, scardina radicatissime gerarchie tra umano, animale, vegetale, minerale (ed è ancora più cristallino, a questo proposito, il viaggio di Le quattro volte). Non è un cinema animista, questo no, ma il suo autore è sicuramente dotato del dono della compassione, intesa etimologicamente come un “sentire con”, come un calarsi insomma nella pelle – o nella corteccia – dell’altro. Il buco funziona così anche come sommessa riscrittura del cinema d’avventura: non racconta di un viaggio al centro della terra di trionfale positivismo, ma di un umile e quieto inabissarsi.
