TRAMA
Polonia, primi anni Sessanta. Una novizia in procinto di pronunciare i voti perpetui deve, per ordine della madre superiora, lasciare temporaneamente il convento e incontrare la sua unica parente, una zia che non si è mai curata di lei.
RECENSIONI
La scoperta, o meglio, lo scontro, non voluto ma inevitabile, con la vita, con le solitudini di altre persone che sfiorano, incrinandone appena, senza spezzarlo, il fragile equilibrio, quella di Anna/Ida, in bilico tra un passato ignoto e un avvenire già scritto: una (ri)nascita che si consuma sotto il segno della morte, dell'autodistruzione lenta e progressiva, in un mondo fatto di sguardi impenetrabili, segni furtivi, false partenze, allucinazioni. La Storia (il dopoguerra, con le sue tetre e spesso grottesche figure dis/umane a evocare lo strazio del conflitto) è un meschino fondale per la tragedia di zia e nipote, prigioniere del ricordo, schiacciate dalle aspettative (proprie e altrui), immobili e immutabili malgrado, o forse proprio a causa delle tempeste che ne sconvolgono l'esistenza. Paweł Pawlikowski ha il merito di non forzare la mano, cogliendo con rigore impietoso, mai algido e tanto meno decorativo, il contrasto fra l'affilato candore di Anna e lo stremato disincanto di Wanda, lasciando intatto il mistero dei personaggi, concedendo uno spazio fortunatamente minimo a forzature didascaliche e pretenziosità di scrittura. Il superbo bianco e nero di Ryszard Lenczewski e Łukasz Żal colloca le figure alla giusta distanza, quella in cui la pietà evita il sentimentalismo a buon mercato e la compassione non può che nutrirsi della lucidità. Il film ha fatto incetta di riconoscimenti in tutti o quasi i festival in cui è stato presentato: meritatissimi.

Prima pellicola girata in patria (anche se è di origine russa) da un regista che si è formato ed ha lavorato in Inghilterra: premiata in ogni dove (miglior film europeo secondo Wenders agli EFA), è un’opera d’autore da manuale. Ci sono film che i propri assunti (se li hanno) li urlano ed esemplificano fino alla schematicità, altri che sottraggono il senso compiuto preferendo evocarlo e film che abbracciano la complessità della vita senza manicheismi (viene in mente Asghar Farhadi). Tre categorie (nelle sfumature di grigio, molte di più) con pro e contro. Pawel Pawlikowski adotta temi e figure importanti, non certo nuovi al cinema: il ritratto storico della Polonia socialista, la fede religiosa vista dall’interno di un convento, lo sterminio degli ebrei. Li accosta, anche banalmente, nella cifra stilistica dello scontro: l’acquasanta accanto al diavolo, in un on-the-road alla scoperta delle radici divelte dalla barbarie umana. Il personaggio di Agata Kulesza è diametralmente opposto a quello di Ida (vero nome ebreo di Anna), è un “resto” del comunismo spietato, ex - procuratore che mandava a morire i nemici del popolo. E i segni pare portarli addosso. Per Anna/Ida, invece, i potenziali temi si sprecano: la fede abbracciata solo per contingenza (cresciuta in un convento, conosce solo quel mondo); lo sterminio degli ebrei che ha ucciso una cultura anche nei superstiti; la vita in una campana di vetro che toglie il velo non appena conosce le tentazioni o la “verità”, quella che porta addosso le cicatrici degli accadimenti fino al suicidio; la fuga di un’anima senza radici nell’abbraccio del convento. Questo il problema: Pawlikowski non sottrae nulla a favore di un discorso centrato, né allarga il senso per non essere retorico o banale. Dice semplicemente tutto e il contrario di tutto. Il suo bianco e nero è bellissimo ma accoglie figure schematiche, situazioni da dibattito anni sessanta (appunto), belle immagini che un Godard, quando esplorava sguardi e corpi, aveva già portato a compimento cinquant’anni prima. Un film che si specchia in un suo dialogo: “A cosa pensi?”, dice lui a lei con lo sguardo assorto nel vuoto. “Non penso”.
