TRAMA
Da “I viceré” di Federico De Roberto, la storia della famiglia Uzeda, discendente dei viceré di Spagna.
RECENSIONI
650 pagine di stampo naturalista, narrazione impersonale affidata ad un narratore eterodiegetico, negazione dello psicologismo: romanzo verista, I viceré di Federico De Roberto, radicalizza le peculiarità della corrente negando qualsiasi pietas attraverso la frammentarietà dell’affresco, disgregando la narrazione in una coralità scevra da protagonismi di sorta. Familismo amorale: tre generazioni di personaggi divengono figurine di rara fissità psicologica, emblemi del soggiacente impianto ideologico del romanzo, segni di un radicale pessimismo nei confronti del cambiamento, della possibilità stessa di progresso. Determinismo cristallizzato in una rara coerenza di stile e contenuti.
La storia è una monotona ripetizione, gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi
Faenza si avvicina al libro apparentemente snaturandone l’impianto stilistico, immolando l’impersonalità sull’altare di un narratore interno, il giovane Consalvo, testimone, quando non fulcro, delle vicende. Ma la scelta è lungi dall’essere radicale, poiché la voce over assume un ruolo equilibrato, sostanzialmente onnisciente, lontano dal palesare il punto di vista psicologico personale del personaggio interpretato da Alessandro Preziosi. Più che una profonda scelta stilistica, un modo di vedere e sentire le cose, quindi, un semplice espediente per organizzare la narrazione complessa e stratificata del romanzo. Eccolo, l’espediente. E’ inevitabile che la presenza di una sorta di protagonista, sebbene a tratti risulti spregevole, crei una sorta di empatia con il personaggio che, giocoforza, allontana la devastante sensazione di disarmo senza appigli causata dalla lettura del libro. E’ inevitabile altresì chiedersi se qualcuno si sia posto il problema. Si badi al fatto che, per chi scrive, qualsiasi scelta nell’adattare un testo, passando addirittura da un medium a un altro, è da considerarsi legittima. Ma ne I viceré ciò che turba è la mancanza di coerenza, di radicalità di queste scelte, il pressappochismo e la banalità della messa in scena, la continua ricerca di piccoli ed evidenti espedienti che permettono di cancellare da ogni orizzonte una plausibile compattezza estetica.
Per una malintesa adesione al libro Faenza dà sfogo alle pagine a suo avviso più rappresentative, cancellando i momenti di stasi e ingolfando la narrazione di scene madri slegate, semplicemente accostate l’una all’altra: i personaggi, nel romanzo al limite del dirupo della macchietta, ci si inabissano, intenta com’è la sceneggiatura a mantenere lo spettatore in guardia, ché dove non c’è tragedia ci sia comicità. Le scene, le figure dicono, mai insinuano. Quella di Faenza è televisione, nel senso più deteriore del termine: l’obiettivo è trovare di volta in volta il metodo più semplice e banale per produrre senso. Un esempio: per significare un personaggio annebbiato dall’alcol e dall’ira gli si regala, venendo di nuovo a meno qualsiasi principio di impersonalità, una soggettiva fuori fuoco [1]. Detto tutto. Certi personaggi compaiono giusto il tempo di porre adeguatamente il frammento del puzzle, che sia un gag o l’esemplificazione di un concetto. E a chi sostiene che il “cinema è montaggio” Faenza risponde accostando le scene con brusca piattezza, lasciando in alcune i segni evidenti, le sgrammaticature, della potatura subita nel ridurre la versione televisiva per il cinema. Senza considerare che, seguendo il suo senso per il marketing [2] , il film si affanna ad esplicitare l’esplicito, “il film è un duro attacco contro il trasformismo”, forzando addirittura i dialoghi tratti dal romanzo (non sia mai che lo spettatore fatichi a comprendere) e giungendo sul finale all’unico momento degno di attenzione dell’intera opera: Alessandro Preziosi guarda in camera, mentre sciorina la morale, in un momento di cinema grottescamente imbarazzante, trasfigurazione che, avesse permeato l’intera opera, le avrebbe regalato un minimo spessore. Il ridicolo rimane però solo chiave potenziale: il cinema di Faenza resta quello che è, illustrazione sciatta [3], priva di idee, alla ricerca di una fruizione immediata e ottusa: chi, come me, perverso, si sia accostato alla visione con l’intento di analizzarne affinità e divergenze estetiche con l’amato romanzo, può pure iniziare la recensione comparando le istanze narratrici, ma è una questione di determinismo il ritrovarsi dopo poco nella fanghiglia dello sconforto. A casa la filologia, bando alla reinvenzione stilistica, alla coerenza estetica: I viceré di Faenza è più figlio di Elisa di Rivombrosa che di De Roberto. Dello straordinario romanzo verista estrae il necessaire per essere quel che si è proposto, un TV-Movie sul trasformismo e su una società che non può cambiare. Amen.
