Giallo, Thriller

I SOLITI SOSPETTI

TRAMA

Cinque criminali. E Kaiser Soze. Un burattinaio. Il diavolo, probabilmente.

RECENSIONI

Dire qualcosa riguardo a I soliti sospetti significa davvero rimestare il calderone dell'autoevidenza: un noir che si comporta da whodunit, la tragedia ineluttabile che scaturisce da un caos perfettamente strutturato, un uomo che beffa l'intorno e i canoni del genere, che sottomette la complessità della realtà alla sua volontà, che fa trionfare - come in ogni giallo che si rispetti, ma a parti inverse - il raziocinio. E la menzogna, coerentemente. Un elogio alla capacità affabulatoria di ogni narrazione, l'affermazione sistematica dello statuto d'ambiguità dell'immagine. Si dice che ogni grande film, per essere tale, debba rivelare la materia di cui sono composti i suoi fotogrammi: I soliti sospetti dichiara esplicitamente il suo essere frutto di un discorso, incentra su ciò la rivelazione principale del film, il fine ultimo di un meccanismo narrativo implacabile, che stordisce qualsiasi rilevazione di inverosimiglianza, che permette all'intreccio di rendere risibile la fabula, proclamando la distanza assoluta tra credere e vedere. Adagiato perfettamente nel contesto del cinema americano anni '90, un esemplare di cinema che ribadisce l'esile spessore della pellicola in confronto a quello della realtà, sollazzandosi nel mettersi in gioco come pura narrazione, stilizzando un'anima classicheggiante immersa in quella vivida consapevolezza che è tutta contemporanea, recuperando strategie narrative vecchie come il mondo (la destrutturazione temporale, la falsa enunciazione) e giocandole sfacciatamente, senza timori, facendo di queste forme la sostanza. Una sostanza abitata, ovviamente e magistralmente, da tipi criminali senza pretese di profondità ma che anelano sfrontantamente alla leggenda, personaggi dal lessico sottratto al cinema criminale americano, labbra che pronunciano frasi risolute, meravigliosamente apodittiche, e anime mosse da vaghi retaggi di filosofia e spirito noir. Certi dettagli sono il sintomo di un perfezionismo più esibito che concreto (la relazione tra la distribuzione dei fascicoli e la cronologia della morte dei protagonisti, l'equilibrio audiovisivo del colpo di scena finale, il simbolismo spiccio che disegna l'inevitabile), ma sono perfettamente in armonia con il capolavoro del demiurgo Kaiser Soze, l'apparenza prima di tutto. E' la struttura (sceneggiatura di Christopher McQuarrie, premiato con l'Oscar) a dominare, a inchiodare gli occhi dello spettatore allo schermo, servita da un cast d'attori in reale stato di grazia e e da una regia che s'adegua, che non s'aggrappa a fronzoli, viaggiando ben distante, comunque, dall'anonimato. La carriera di Synger e quella di McQuarrie dimostreranno che opere del genere sono il frutto di circostanze fortunate. Bando alla politique des auteurs: un gran cazzo di film.

Piccolo giallo/thriller di culto subitaneo per opera del giovane Bryan Singer, al secondo film da regista dopo il pregevole Public Access: ma l'Oscar è andato, giustamente, alla calibrata sceneggiatura di Christopher McQuarrie, alla sua struttura matematica ma non congelata, al suo smistamento di misteri in un complesso gioco di flashback che non rivela mai più del necessario, pur non omettendo l'indispensabile. L’intreccio in sé è complicato ma non snervante, trova una misura avvincente pur nella verbosità che va a scapito dell'azione, sorretto da ottimi dialoghi e da un convincente disegno a tutto tondo dei caratteri. I colpi di scena (il primo pone i protagonisti in una situazione alla Dieci Piccoli Indiani di Agatha Christie) non sono macchinosi ed effettistici e il finale è davvero spiazzante, nel momento in cui dà corpo ad uno dei personaggi più diabolici della storia del cinema, abile nel far sapere di non esistere, sogghignante beffatore di una platea (poliziotti/spettatori) che ha vissuto una soggettiva di due ore. Singer fa largo uso dei primi e primissimi piani, forte di un cast sopraffino, fra cui Gabriel Byrne, Chazz Palminteri e la vera rivelazione, Kevin Spacey, anch’egli premiato con l'Oscar e interprete, lo stesso anno, di un’altra memorabile figura sinistra in Seven: il suo Verbal zoppo, beota, effeminato, elusivo e commovente è indimenticabile. L’ottima sinergia di talenti è completata da ingegnose soluzioni di messinscena (lo scatolame come una mitragliata, la porta sbattuta come un colpo di pistola, la soggettiva dell'uomo con due pistole) e dall’eccellente montaggio (John Ottman, autore anche delle musiche).