Drammatico, Recensione

I PUGNI IN TASCA

TRAMA

Ale, Giulia, Augusto e Leone sono quattro fratelli che vivono con la madre cieca in una magione nel piacentino. Leone è ritardato e malato di epilessia, Augusto ha uno studio legale, Giulia sta quasi sempre rintanata in casa e Ale che soffre anch’egli di disturbi epilettici vorrebbe allevare cincillà.

RECENSIONI

La descrizione del gruppo familiare all’interno della villa nei pressi di Bobbio racchiude e dischiude una polisemia controversa e complessa, difficilmente rintracciabile nel cinema italiano di quegli anni, un dispositivo di segni pronto a folgorare il senso a partire dal titolo (che si scoprirà assonante con un verso di Rimbaud) e l’immagine di convulso ribellismo lacerato nelle contrazioni dell’impotenza che esso evoca. L’esordio di Bellocchio dopo i lavori del Centro Sperimentale è la prova inconfutabile che un certo tipo di cinema si sta ridescrivendo nei contenuti e nelle forme anche se in Italia, a differenza di altri contesti geografico-culturali, le giovani esperienze cinematografiche non riusciranno a trovare motivi (estetici, politici, etc.) di coagulazione, affidandosi piuttosto a un frastagliato nucleo di poetiche eterogenee. Ale, il vertice più significativo dell’inquietante quadrilatero familiare, irrompe nella scena con un balzo felino. La sequenza iniziale ci introduce da subito all’interno di un testo ricco di linguaggi non verbali, di gesti da decodificare che si agitano alle spalle di una comunicazione più normale costituita dal solito frasario comune un po’ a tutti gli ambienti familiari borghesi. Bellocchio carica l’universo concentrazionario della casa isolata dal resto della provincia e di una gestualità che se da una parte funge da canale privilegiato nei rapporti interpersonali (Ale e Giulia e la loro complicità morbosa fatta di sguardi, carezze, morsi e schiaffi) dall’altra sembra creare una vistosa frattura con il mondo emotivo circostante (Ale e la madre, Ale e Augusto), senza dimenticare la valenza dell’atto inteso come sintomo psicopatologico di una coazione a ripetere che colloca la dimensione familiare al di fuori della Storia. Lo spazio fisico e quello diegetico sono sempre misurati su spostamenti che prevedono la casa, l’ambiente domestico come proprio baricentro, luogo in cui viene consumata grottescamente la tragedia esistenziale dei personaggi che la abitano, nel loro distanziarsi (Augusto) e nel loro permanervi (tutti gli altri). La villa è il centro topologico al quale si ritorna dopo la visita al cimitero, dopo le scorribande notturne di Augusto, dopo le passeggiate vanitose di Giulia, dopo lo spleen cittadino di Ale. Solo Leone è l’unico personaggio che nella sua costitutiva immobilità è condannato a regredire nel suo amnios (morirà affogato nella vasca da bagno). L’abitazione domestica con i suoi interni e i suoi labirintici anfratti è lo spazio eminente della Krankeit zum Tod di Thomas Mann (che condurrà letteralmente Ale a una tragica morte “in musica”), della contraddizione, del negativo come impasse logica e pragmatica (la famiglia rappresenta la borghesia e nello stesso tempo ne è la negazione, la ribellione di Ale nei confronti dell’istituto borghese è contemporaneamente irrazionalistica trasvalutazione dei valori e a-morale tentativo di razionalizzare l’evoluzionismo borghese mediante funebri e feroci teoremi); terrificanti spettri che si aggirano per casa assumendo le sembianze dei familiari in cui viene fantasmizzata una rimozione sociale dalla quale Augusto vorrebbe fuggire per rifugiarsi nella meschinità di una vita borghesemente normale sposando Lucia.

Il piacentino Marco Bellocchio (che gira nella sua casa delle vacanze, a Bobbio), esordiente nel lungometraggio e con tre cortometraggi alle spalle realizzati al Centro Sperimentale di Cinematografia, apre una finestra su di un quotidiano che ha l’apparenza della “normalità” ma che, in realtà, da tutta una serie di dettagli magistralmente puntellati, racconta con potenza il caos imploso e disturbante in ogni dove, componendo un’opera che resta una mosca bianca nella produzione mondiale, forse perché, negli anni in cui per essere “moderni” tutti guardavano alla nouvelle vague, Bellocchio pare pescare anche altrove (Artaud, Bunuel, Stroheim), inventando, di suo, un registro grottesco (con note sofferte di Ennio Morricone) che non perde un grammo della propria aderenza con il possibile, per quanto il microcosmo ritratto culli (solo) l’eccezionale, l’estremo. Fa, della realtà, un calco deformato orribile, un racconto ordinario di personaggi anomali, un’allegoria morbosa delle disfunzioni della famiglia borghese: l’esposizione è secca, diretta, nervosa, inquietante per la follia quotidiana (raccogliendo, agli estremi e in anticipo, i malumori che porteranno alla “rivoluzione” giovanile nel ‘68). Un film che emana vigore e rabbia da tutte le parti, imparentato con il Free Cinema inglese, con tutta la Settima Arte d’avanguardia e della crudeltà del passato, lanciando un monito: i pugni sono ancora in tasca ma la rabbia sta per esplodere in tutto il Mondo. Nel frattempo, dissestò la calma piatta del nostro cinema coccolato dal benessere da poco riconquistato, uccidendo Casa Chiesa e Famiglia. Lou Castel indimenticabile.