Poliziesco

I PADRONI DELLA NOTTE

Titolo OriginaleWe Own the Night
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2007
Durata105'
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia

TRAMA

1988. Bobby Grusinski gestisce locali, a stretto contatto con la malavita organizzata russa. Suo padre e suo fratello, pezzi grossi della polizia, indagano su uno dei clienti di Bobby. Scorrerà il sangue.

RECENSIONI

Frustrante scrivere di un film come We own the night, ché scevro da post-modernismi o cerebralismi di sorta, libero da evidenti forzature di linguaggio, casto di fronte all’eccitamento interpretativo, lascia unicamente spazio a derive descrittive difficilmente in grado di rendere giustizia al testo. Nel ricorso al genere Gray trova il pretesto per sondare affetti e relazioni: lungi dal rielaborare con cerebrale distacco i canoni vi aderisce con cieca fiducia, considerando le ombre del noir via preferenziale nell’indagine dell’abisso dei personaggi. Così ne I padroni della notte quanto nelle opere precedenti: personaggi stratificati, scissi nel profondo tra la volontà di autodeterminazione e l’inesorabile condizionamento ambientale- il caso ad aleggiare, terzo incomodo predominante-, si dividono tra etica personale e necessità degli affetti, posti dal palesarsi del conflitto narrativo di fronte a scelte inevitabili. Indissolubilità delle radici e scontro tra predeterminazione e libero arbitrio si sedimentano sulla cinematografica virilità di pistole e distintivi, esplodendo di fronte al conflitto, non all’interno di esso, ché i dilanianti moti interiori declassano l’importanza del nemico reale. Bobby Grusinski non può rigettare le sue origini, Bobby Green cessa di vivere: il prezzo per sopravvivere è rinunciare a se stessi. Non esistono vocaboli che definiscano la concomitanza paradossale e lancinante di vittoria e sconfitta, le parole scadono in un inadeguato pallore di fronte al costernante sguardo finale di Joaquin Phoenix (parente stretto del Tim Roth di Little Odessa e del Mark Wahlberg di The Yards): Gray raggiunge l’ambigua profondità tragica dei suoi personaggi con pudico ed empatico lirismo, esente da frastornanti volgarità estetiche, estraneo al ricatto emotivo. Sequenze da mandare a memoria, innata passione per la narrazione, viscerale affetto per i personaggi. Referenti cinematografici ormai lontani nel tempo, cinema che crede assolutamente, romanticamente, in sé stesso.

L’asfissia del contesto descritta da James Gray nello splendido I padroni della notte non dà adito a dubbi: ai personaggi, determinati dalla nascita, non è concesso libero arbitrio. Non hanno a disposizione che il simulacro della scelta, il fantasma illusorio dell’autodeterminazione. Per loro dirazzare è impossibile, il contesto torna a batter cassa ed esige il suo credito in modo tanto più prepotente quanto più scriteriato è il loro tentativo di evaderlo. Che fine fanno gli uomini sotto questa cappa opprimente? Che cosa rimane della loro autonomia? Frammenti. Schegge. Particelle, anzi particolari. Ed è questo il cinema squadernato da We Own the Night: un cinema di particolari che resistono alla pressione contestuale. Sono dettagli intrisi di paura, l’unico straccio di sentimento lasciato all’individuo. Paura di essere colpiti, smascherati, eliminati. È sorprendente notare come il linguaggio cinetico di questo film sia lontano dalla grammatica dinamica di qualsiasi altro cinema: anziché sacrificare le reazioni dei personaggi alla logica dell’azione, Gray mortifica la scorrevolezza del fraseggio all’imponenza delle espressioni dei volti. Imponenza come grandezza e come oggetto che si impone. Esemplare la sequenza automobilistica della sparatoria: una manciata di inquadrature all’esterno della macchina e poi via dentro l’abitacolo, appiccicati al volto terrorizzato di Bobby (un Joaquin Phoenix gloriosamente imbalsamato). Lezione di antieconomia cinematografica: togliere peso all’azione spettacolare, concentrare il dramma nelle reazioni facciali del protagonista. Nessun altro regista (nella Hollywood di ieri e oggi) avrebbe il coraggio di deprivare cineticamente il suo film. Gray sì. Sommo rispetto.