TRAMA
Katie si sente incompresa in casa e non vede l’ora di andare al college. Alla vigilia della sua partenza si scatena una apocalisse robotica per sopravvivere alla quale dovrà collaborare con la sua famiglia e salvare il mondo.
RECENSIONI
I Mitchells contro le Macchine è l’ultima opera della prolifica Sony Pictures Imageworks (SPI), piccola-grande eccezione nell’ormai variegato panorama di studi d’animazione mondiale perchè, oltre a produrre per la casa madre, sviluppa film anche per terzi come, tra i tanti, Over the Moon per i Pearl Studios e Netflix, Cicogne in Missione per la Warner, e, appunto, i Mitchells Contro le Macchine, originariamente previsto in ordinaria distribuzione cinematografica, ma poi ricollocato in streaming a causa della pandemia e acquistato da Netflix data la mancanza da parte della Sony di una piattaforma proprietaria. L’inusuale posizione produttiva ha permesso alla SPI di scatenarsi in espedienti stilistici e visivi diversi, scavalcando quello che, per molti altri studi (Disney in primis), è un limite, ovvero il doversi adeguare ad un look che tradizione e pubblico impongono. Da questa libertà creativa è sbocciato quel capolavoro visivo di Spiderman: Un Nuovo Universo che ha confermato come la versatilità della moderna CG può ormai permettersi di tutto, esattamente come l’animazione tradizionale. Da Spiderman, oltre al duo Phil Lord e Christopher Miller (qui in veste di produttori), I Mitchells contro le Macchine riprende tutto quell’apparato tecnico e di ricerca grafica che aveva reso quel film così unico e diverso; in questo caso, più che un fumetto animato, esso si presenta come uno scoppiettante pot-pourri di tante tecniche d’animazione, dalla CG, alla stop motion, al 2D, alla puppet animation, con l’aggiunta di semplici disegni (scarabocchi a matita o pastello, spesso su notebook, a volte in sovraimpressione con funzione di commento metacinematografico), e sequenze (sempre animate) di found footage (la protagonista Katie, aspirante regista, documenta il viaggio con una vecchia telecamera) fino all’introduzione addirittura di spezzoni live-action.
Il titolo scelto per la distribuzione cinematografica era “Connected” - è stata Netflix a voler recuperare l’originale titolo di lavorazione - (falsamente) più indicato, perché fa riferimento al cuore emotivo del film: ovvero una riconnessione degli affetti famigliari tramite una disconnessione da quella tecnologia che, pur azzerando le distanze, ci rende emotivamente sempre più distanti gli uni dagli altri, anche (o forse soprattutto) se si condivide lo stesso tetto. A ben vedere, questa intenzione può essere considerata solo un pretesto o, meglio ancora, un adeguarsi alla rodata formula del blockbuster americano che necessita sempre di una presa sentimentale sul pubblico di massa; perchè alla fine, ciò a cui il film punta davvero, è una girandola mirabolante di gag e azione dal puro nonsense narrativo e visivo , un trip ancora più estatico per gli addetti ai lavori: Katie è infatti una filmaker alla ricerca dei suoi simili, artisti e creativi che vedono (e interpretano) il mondo (quel mondo che in fin dei conti è il film che arriva allo spettatore) con occhi diversi, e che sono spesso incompresi proprio dalle loro famiglie. Torna quindi l’onnipresente tema della famiglia, spesso “disfunzionale” (c’è anche un gag molto esilarante a proposito), o meglio ancora quirky - stramba - che negli ultimi dieci anni ha dilagato al cinema e in tv, traendo a volte spunto direttamente (come in questo caso o in Onward) da vicende personali dei vari registi al timone.
Il punto di forza è sicuramente il comparto grafico, il look - character design su tutto - lontano dalla standardizzazione della maggior parte delle produzioni in CG odierne, che strizza l’occhio a una graphic novel plasmandosi in una caricatura mai grottesca, ma sempre esagerata, che si esprime bene in un’animazione a volte cartoon (il villain è praticamente un’emoticon in movimento) altre più tradizionale, altre ancora addirittura in stile anime. E’ il caso delle roboanti sequenze finali, incalzanti, serrate che quasi soffocano i momenti più intimi del film, quelli incentrati sulla riconquista dell’intesa di un rapporto padre-figlia ormai logorato, tanto da farli apparire più che sentiti, un semplice conformarsi a un certo modo di concepire il cinema. A salvare il tutto è proprio il medium animato, qui sfruttato in senso meta, che permette di scatenare inusuali possibilità narrative altrimenti irrealizzabili e che conducono a un (delizioso) controsenso di fondo: a tratti il film si traveste da prodotto homemade, quasi come se la stessa Katie lo avesse realizzato nella sua stanza con i primitivi mezzi a sua disposizione, quando invece esso ha dalla sua (e lo sa) la più avanguardistica delle tecnologie digitali, quegli stessi computer contro i quali i Mitchells devono combattere. Puro nonsense… come tutto il film.