
TRAMA
C’erano una volta due truffatori, figli della superstizione popolare. C’era una volta un villaggio in cui i bambini scomparivano misteriosamente. C’era una volta una foresta incantata, dove viveva una bellissima strega…
RECENSIONI
I know this tale
Pinocchio non potendo rispondere con le parole, a motivo delle monete che aveva in bocca, fece mille salamelecchi e mille pantomime per dare ad intendere a quei due incappati, di cui si vedevano soltanto gli occhi attraverso i buchi dei sacchi, che lui era un povero burattino, e che non aveva in tasca nemmeno un centesimo falso.
- Via, via! Meno ciarle e fuori i denari! - gridavano minacciosamente i due briganti.
Carlo Collodi
Davvero curioso che qualcuno voglia leggere in THE BROTHERS GRIMM il rilancio artistico del suo creatore, assente dalla scena per sette lunghi anni: occorre essere davvero gilliamisti nell’anima per riconoscere in questo patchwork maldestro, agglomerato piuttosto casuale di personaggi luoghi e situazioni, la mano inconfondibile dell’autore. Un film che piace e piacerà, ma raschiato l’intonaco delle intenzioni si risolve in un innegabile fiasco per una pergamena di ragioni: per primo il suicidio di Terry Gilliam, ex rivoluzionario in doppiopetto, che per l’occasione “è diventato un bambino perbene” pronto ad adeguarsi al target sovraimpostogli da una produzione che conosce il suo pubblico. Mescolando realtà e fantasia (la storia scrive sé stessa, come dimostra la raccolta di fiabe in fieri che fa capolino nel racconto), l’opera cala una coppia di personaggi storici nell’ambiente magico e mitizzato, intavolando una riflessione sulla pratica dello storytelling: al contrario del Burton di BIG FISH, la cui sfrenata immaginazione toccava realmente la meraviglia, qui si ha un riciclo impunito ed omogeneizzante, che castra ogni minima figur(in)a della propria identità scivolando presto nel superfluo. Come luminoso esempio uno svolgimento che, tanto è pretestuoso, avrei voglia di tralasciare: i fratellini Grimm, coppia di arguti truffatori, si imbattono stavolta in una vera strega e saranno cavoli amari. Nel frattempo la storia ci mostra i personaggi delle loro fiabe (Cappuccetto Rosso, Biancaneve, l’Omino di Marzapane) spuntare nel racconto senza soluzione di continuità: ovviamente le novelle non sono anonimamente traslate sullo schermo ma riadattate e reimpostate da Gilliam per rendersi riconoscibile (il marzapane non nasconde un omino, il lupo non è esattamente tale). Fin dall’inizio il meccanismo si adagia alla luce del sole, è talmente evidente da apparire puro ghirigori narciso e risultare intimamente odioso: Dato che IO sono Terry Gilliam, ci informa il regista, riscrivo le fiabe come mi pare e piace. Subito plana il disinteresse: nessuno spettatore, a ragion veduta, vuole sapere come Gilliam scrive una storia ma gradirebbe soltanto godere di quest’ultima. Nella fattispecie, tutto è piuttosto debole: alla stregua di un qualunque VAN HELSING gli acchiappamostri gironzolano spaesati più volte nella stessa foresta, sullo stesso sentiero, dentro lo stesso racconto; la consumata iterazione di date situazioni (la ricerca, l’antagonista, il pericolo, il superamento), la manifesta incapacità di procedere nella narrazione (quando viene al dunque il film si arena e non si riprenderà più) simboleggiano oggi l’inquietante impotenza di questo cineasta. Non regge, peraltro, l’alibi del “racconto nel racconto”: se ricalcando il modello della fiaba tradizionale l’autore in questo film deve riproporre situazioni ataviche, lavorando sull’archetipo e la tradizione, è questa una scelta stilistica che nasconde maldestramente la sindrome da pagina bianca, non infondendo alcuna impronta personale alla materia ma lasciandola distrattamente a pascolare. Infine neanche l’estro visivo, di cui non mi pare Gilliam abbia mai difettato (basti rivedere il tunnel allucinatorio di PAURA E DELIRIO), offre stavolta alcuna peculiarità: tra effettacci a profusione e soluzioni di scontata noncuranza, impostoci addirittura l’ennesimo specchio magico, la città dell’autore non è affatto incantata dato che la sua indole sanamente bastarda emerge in un’unica sequenza (il gattino maciullato) nell’arco di due ore; poi si nuota nel prolisso, neanche il calco più sfacciato può contenere lo sbuffo di noia. Contrariamente al consueto standard l’americano sbaglia anche il cast: Ledger si incatena alla macchietta dell’imbranato dal cuore d’oro, Damon quasi il suo contrario, la Bellucci è un gingillo da quattro minuti.
Un ritorno, quello di Gilliam, subito afflitto dal morbo della leggenda: lasciatoci con l’impasticcato PAURA E DELIRIO A LAS VEGAS – chi ha visto il documentario LOST IN LA MANCHA conosce la catena di sventure che si abbatté sull’incompiuto Don Chisciotte -, venerato dalla mandria cinefila appena per una manciata di film (questo è l’ottavo), spesso sopravvalutatissimo (BRAZIL, davvero bruttino), stavolta il risultato dell’autore è tanto misero da lasciare sconcertati. Seppur disconnessa dallo specifico filmico questa la mia spiegazione: il “maledetto” Gilliam, puntualmente vessato da ogni peripezia realizzativa data l’indole eversiva o la semplice sfortuna, “a motivo delle monete che aveva in bocca” (produce la Miramax) non se la sente (più) di rischiare e finisce inevitabilmente (consapevolmente?) per pagare pegno narrativo. Una sorta di svolta buona per il regista, come detto sopra, che si risolve in un globale ignavo e mediamente rassicurante: cavalcando un budget notevole THE BROTHERS GRIMM si appresta dunque a conquistare la platea mondiale. La conosco questa storia.

I soliti, non pochi problemi produttivi per Gilliam: la MGM si ritirò dal progetto nel 2004, il film venne rilevato dai fratelli Weinstein con cui il regista ha litigato non poco, vedendosi imposto un differente direttore della fotografia (Nicola Pecorini è stato licenziato) e una diversa protagonista (voleva Samantha Morton e non Lena Headey che, comunque, è stata una scelta felicissima). Anche la sceneggiatura, da lui personalmente riscritta, non lo vede accreditato. Mentre il progetto era fermo, Gilliam ha diretto il pregevole Tideland. Al solito gigantista, l’autore s’è permesso di tagliare una scena fra le più costose (degli alberi che camminano). Assomiglia più a Le avventure del Barone di Munchausen che a La Leggenda del Re Pescatore, per dire che Gilliam si sfoga più nell’immaginario iconografico (fra Gustave Doré e il pittore Caspar David Friederich) che nella sostanza testuale grottesca e simbolica, ma siamo sempre e comunque di fronte al suo universo, fra scalcinati cavalieri e atmosfere cupe e spaventose, colme delle visioni stregate proprie dei Grimm. Girato a Praga, è forte dell’idea bizzarra di trasformare i due scrittori in truffatori vagabondi, citando le loro favole con insert di Cappuccetto rosso, Il principe ranocchio, e così via. Come una bizzarra variazione di Avventura nella Fantasia di George Pal, biografia dei Grimm con tre dei loro racconti. È meno originale l’idea dei truffatori che si ritrovano “eroi per forza” ad affrontare ciò che simulavano.
