
TRAMA
Torino, fine Ottocento: le 13 ore lavorative sono troppo pesanti e causano infortuni; le assenze per malattie non vengono pagate. Gli operai dell’industria tessile, coadiuvati da un professore socialista, scioperano.
RECENSIONI
Splendido affresco della Torino operaia del XIX secolo (rinvenuta a Cuneo), con tanto di canti d’epoca, immerso in una fotografia (di Rotunno) che sfrutta mirabilmente fumi e grigiori, stile Londra cinerea dell’Oliver Twist di Lean. La generosa scrittura corale è un coacervo di pressoché tutti i temi possibili che era doveroso affrontare con taglio drammatico-storico-politico-sociologico: le rivendicazioni socialiste sul salario e l’orario di lavoro, la necessità dell’alfabetizzazione, della solidarietà, della tenacia contro gli interessi dei capitani di industria. Ci sono pure accenni al diritto alla parità delle donne, alla tolleranza per chi fa “la vita” per necessità e critiche al freddo distacco dell’intellettuale che, per la Causa, trova vittime sacrificabili. La gran classe degli autori sta nel non fare mai dell’opera un apologo troppo apertamente didascalico: gli sceneggiatori Age/Scarpelli mettono al servizio di Monicelli la loro abilità nello schizzo che racchiude un universo significante, dilatano a personaggio tridimensionale/archetipico il bozzettismo sui vari personaggi (l’operaio grasso, manesco ma generoso; la schiettezza popolana di Celestina; il siciliano ferito nell’orgoglio), con una rappresentazione a largo raggio della tipica fauna italiana/dialettale che diventa mezzo paradigmatico e indirettamente significativo (vedi il bellissimo finale, dove la figura del ragazzino che lascia la scuola per raggiungere la fabbrica chiude il cerchio della riflessione critica). Un lavoro di scrittura eccellente, di raro impegno per artisti di solito vo(l)tati al botteghino, plausibilmente incoraggiati dal successo di un La Grande Guerra (stesso trasferimento temporale della tipica commedia all’italiana, stesso piglio drammatico-comico): purtroppo, fu un sonoro flop negli anni del boom economico, poco propensi a “seriosi” (!) atti memoriali delle lotte operaie. Monicelli, in realtà, qui non rinuncia certo alla risata, semplicemente inverte i termini: invece che commedia con sfondo amaro di critica sociale, ecco una struttura drammatica e d’impegno con tracce macchiettistiche. E non c’è una caduta di tono o stilistica, né alcuna concessione corriva/ammiccante, solo del panegirico ideologico di partito (comunista) quando si tratta di schizzare l’uomo di sinistra (la maschera eccezionale di Mastroianni, con capello lungo da intellettuale e fare perennemente affamato), i capitani di industria melliflui raggiratori e inumani schiavisti e tutto il popolino rozzo, ignorante ma (solo) genuino e divertente, solerte all’unione nella lotta di classe. Un’opera insolita nella filmografia di Monicelli, riallacciabile al neorealismo e al formalismo stalinista-sovietico, ma senza la faziosità di quest’ultimo.
