TRAMA
Nick Angel è un agente di polizia modello, dalle manette così prolifiche da indurre i suoi superiori a trasferirlo in campagna, per non screditare il lavoro degli altri componenti della polizia. Giunto a Sanford, plurivincitore del concorso “Villaggio dell’anno”, si trova dinnanzi ad una catena inarrestabile di incidenti. O di omicidi?
RECENSIONI
Né parodia diretta alla Brooks, né delirio non-sense alla Zucker-Abrahms-Zucker, la chiave umoristica di Hot fuzz, così come quella del precedente Shaun of the dead, si regge sulla contrapposizione tra la verosimiglianza emotiva del personaggio principale e la deformazione parodistica non solo dei topoi narrativi che attraversa, ma paradossalmente anche delle proprie caratteristiche psico-fisiche, luoghi comuni amplificati. Sbirro londinese totalmente dedito al lavoro, che svolge con estenuante e incredibile efficienza, viene trasferito per invidia in un piccolo borgo di provincia, così che il primitivo luogo comico “cittadinoincampagna” si leghi inevitabilmente alla commistione di due generi cinematografici, il poliziesco di stampo statunitense e la black comedy britannica à la Ealing. Chiara quindi la situazione di partenza da cui filiare i gag: un protagonista le cui caratteristiche principali trovano nemesi nella nuova contestualizzazione, un’ambientazione atipica e innaturale per il genere cinematografico a lui legato, personaggi secondari i cui caratteri, divergenti rispetto al protagonista, vengono enfatizzati per contrapposizione. Il gioco, quasi elementare, è fatto. Ma Hot fuzz si spinge oltre. Innanzitutto lavora con credibilità sugli stilemi calligrafici in sede di regia, ispirandosi dichiaratamente per le scene d’azione, tutte panoramiche a schiaffo e montaggio sincopato, ad un autore che è già parodia come Tony Scott (è Wright stesso a parlare di Domino come referente), riuscendo nell’intento di creare cortocircuiti di per sé comici tra stile e contesto (così come avviene con le derive splatter). Ma, soprattutto, in fase di scrittura propone una trama che si emancipa dalla pura accumulazione di gag tipica del genere, trovando una sua peculiare linearità e solidità. Prendiamo ad esempio il nucleo forte della detection: ci sono una serie di omicidi, ovviamente interpretati dagli “ingenui” abitanti del villaggio come incidenti, un agente proveniente dalla città indaffarato nel distoglierli da questa convinzione, un sospetto palese agli occhi di protagonista e spettatore. Il pubblico, tramite la gestione del sapere e la focalizzazione, si abbandona allo stereotipo “colui che si trova sempre e insistentemente sul luogo del delitto è il colpevole” interpretando i lapalissiani indizi contro il personaggio di Timothy Dalton come caratteri amplificanti per contrasto l’ingenuità della popolazione locale e snobbando una caratteristica ricorrente in molte black comedy ambientate nei villaggi, come la “sotterranea organizzazione comunitaria” mascherata da “rurale innocenza”. In questo modo la sceneggiatura dimostra di sapere giocare in maniera raffinata con lo spettatore, negoziando abilmente sia tra gli stereotipi dei generi di riferimento, sia con le più abusate modalità narrative. La solidità sopracitata è ben evidente invece nella fitta trama di dettagli presenti, introdotti secondo un’ottica precisa e ripresi successivamente in base a tutt’altra economia, fattore in grado anche di dare vita ad un particolare e sottile tipo di umorismo, basato sul riconoscimento del particolare ricontestualizzato (si vedano ad esempio le domande insistenti del personaggio di Frost a quello di Pegg circa le sue capacità acrobatico/balistiche e il segmento action in cui queste vengono messe in pratica). L’elogio a Hot fuzz si acuisce portando alla memoria certi gag esilaranti e giocati con estremo senso della misura (per tutti parli la sottile forzatura al sottotesto omosessuale presente in un copioso numero di action), ma paga qualcosa a causa di una prolissità a tratti evidente, vicina ad un fastidioso senso di inconcludenza (simile alla sensazione provata durante i film, comunque incomparabili per genio, dei Monty Python), come nella parte centrale e, soprattutto nel turbine di pseudo-finali. Camei intelligenti (per quanto possa essere intelligente un cameo) di Cate Blanchett e Peter Jackson, sintomi di una cinefilia radicata, ma mai ostentata, integrata a perfezione nel meccanismo, ancora una volta nel segno della misura, con omaggi più che tediose citazioni letterali (quel cigno ricorrente che sul finale provoca un incidente stradale cosa vi porta alla mente?). Il doppiaggio italiano, sebbene non deprecabile, compromette seriamente l’esito di una commedia basata anche su differenze minimali, ma ben percettibile, di tono.
Hot Fuzz è una parodia? Qual è il grado di autonomia comica del nuovo film di Edgar Wright? Difficile a dirsi. Anche Shaun of the dead, che pure sbandierava fin dal titolo la sua natura di parafrasi comica dell’universo romeriano, era una rilettura parodica ben diversa da quelle di discendenza ZAZiana, delle quali il recente Scary Movie 4 rappresenta una sorta di distillato esemplare. Non un collage di referenti precisi, quindi, non una riproposizione parossistica (e dunque “ridanciana”) di situazioni, singole sequenze, stilemi e sintassi cinematografica di/del genere, ma un più generico (e sottile) omaggio all’universo filmico di riferimento, del quale si illustra un possibile mondo parallelo figlio di un’esegesi ora rigorosa ora “alternativa” ma sempre affettuosamente comica. Il comico, dunque, in Shaun nasceva dall’interpretazione letterale del sottotesto metaforico/sociologico/politico della tetra-logia dei morti di Romero (i non-morti della prima parte del film sono effettivamente non-morti in quanto vivi ma sono pallidi e caracollano come i non-morti/zombi della seconda parte e sono da essi “indistinguibili”); da equivoci invertiti e riqualificati come gag (nel finale de La notte dei morti viventi l’eroe sopravvissuto viene tragicamente scambiato per uno zombi e seccato con un colpo di fucile alla testa, in Shaun i protagonisti scambiano una ragazza-zombi per una “viva” e la uccidono per errore); da evenienze teoricamente plausibili ma taciute, per ovvii motivi, nell’originale (i vivi che per salvarsi si fingono zombi e si confondono con questi ultimi). Una comicità, insomma, più implosa e profonda di quella parodico-demenziale classica, e per certi versi “nuova”. Hot Fuzz si sintonizza sulle stesse frequenze ma sfuma ancora di più i contorni fino a renderli indistinguibili dallo sfondo. Nel film ci si affanna, in realtà, a esplicitare i bersagli filmici da tener presenti (Bad Boys II, Arma Letale, Point Break) ma questi non sembrano dotati di un fisionomia così univoca, precisa e “personale” come lo zombi-movie romeriano. Ne risulta uno strano ibrido che se da un lato giocherella a carte scoperte con certi topoi dell’action-poliziesco americano (il superpoliziotto, la strana coppia, gli inseguimenti e le sparatorie estenuanti), dall’altro setta i toni parodici a un livello quasi subliminale (le frasine a effetto degli eroi, le loro sparate macho, sono già autoironiche “in originale” e il riprodurle pedissequamente fa parodia solo al secondo/terzo grado di lettura) ma che soprattutto sembra cercare, faticosamente, una sua fisionomia autosufficiente che stenta a trovare. Perché se è vero che il modus filmandi di Wright inizia già a essere riconoscibile (specie nelle brevi sequenze “di raccordo”, con montaggio rapido, panoramiche a schiaffo e veloci carrellate ottiche) è altrettanto innegabile che il film manca di una struttura veramente solida e che non di rado gira a vuoto tra tempi morti, gag inefficaci e un minutaggio sovradimensionato che procrastina il/i finale/i oltre i fisiologici limiti della “noia”. Attendiamo curiosi la terza prova per sciogliere (o confermare) dubbi e perplessità.